Scrivere non c’entra niente col fare soldi, diventare famoso, crearsi occasioni galanti, agganciare una scopata o stringere amicizie. Alla fine è soprattutto un modo per arricchire la vita di coloro che leggeranno i tuoi lavori e arricchire al contempo la propria. Scrivere è tirarsi su, mettersi a posto e stare bene. Darsi felicità, va bene? Darsi felicità.
Stephen King
Un racconto a caso

Qui trovi raccolti alcuni dei miei racconti, sono solo anteprime, ma clicca sul titolo e troverai il testo completo. Oppure clicca qui per leggere un racconto a caso.
Spirali mentali e viaggi
di Stefano Giolo 30 Ottobre 2024
Scrivo, scrivo, scrivo come sempre da sempre scrivo. Gran parte di questo blog, che per forza è di per sé scrivere, è sulla scrittura -nonostante negli anni sia cresciuta la parte sulla divulgazione tecnologica e del pensiero critico- e a volte mi piace tornare a leggere i miei vecchi racconti e le mie vecchie poesie.
L’ho fatto anche in questi giorni mentre rifacevo il make-up alla grafica, mi sono riletto racconti a caso (https://short.staipa.it/d4gs0) e poesie a caso (https://short.staipa.it/or6h1) rendendomi conto di quanto queste due pagine siano più utili a me che a chi mi segue.
Torno un poco a parlare di scrittura però, a quanto ogni parola che scorre dalla penna o dalla tastiera sembra seguire un percorso preciso, un percorso che appare lineare in un primo mentre inizia a scorrere ma che infine non lo è quasi mai. Esiste un gioco segreto tra le frasi, tra i pensieri, come se ogni storia fosse parte di un disegno più grande. Come se ci fosse un filo nascosto che attraversa il tempo, unendo passato, presente e futuro in una spirale senza fine. Anche tra queste mie parole. Ovviamente. Altrimenti non mi metterei a scrivere qualcosa di così criptico senza un motivo evidente.
Ho sempre trovato affascinate il tempo. Non quello che vediamo scorrere sull’orologio, ma quello che viviamo nella mente. Un tempo che si dilata quando ci perdiamo nei ricordi, o che accelera quando siamo immersi in una storia. In fondo, scrivere è un po’ questo: piegare il tempo, farlo nostro, fargli fare ciò che vogliamo. Scrivo da sempre, e ogni volta mi ritrovo a fare lo stesso tipo di viaggio temporale.
Una spirale di Fermat. Ne ho già parlato, ho spiegato cosa sia (short.staipa.it/xqkxx), c’é qualcosa di magnetico in quella forma. Una spirale che non smette mai di avvolgersi su se stessa, che cresce ma senza mai lasciare davvero il suo centro. È un po’ come scrivere una storia: un movimento continuo, in avanti e indietro, ma che in qualche modo non abbandona mai il suo nucleo. È proprio questa la sfida più grande per chi scrive: raccontare qualcosa di nuovo che ha radici profonde, unire ciò che è stato a ciò che non è ancora. Circondare un nucleo che è il messaggio in un percorso che è la trama, il mezzo; ciò che deve avvolgere anche il lettore e in qualche modo trattenerlo, invogliarlo, spingerlo a ruotare col tutto.
Nello stesso tempo scrivere è fermare il tempo. Creare un vortice nel quale è possibile tornare, e tornare ancora, e tornare un’altra volta.
Scrivere è un viaggio che inizia sempre in un punto, e che non sai mai con certezza dove ti porterà.
Questa riflessione sul tempo e sullo scrivere, lascia il tempo che trova, sono d’accordo.
Ma qualcosa si sta muovendo. Gira in tondo da un po’.
Ci sono vicino, vicino, vicino e poi me ne allontano inesorabilmente, ma poi si torna, e poi si va via, avanti, indietro, avanti, indietro, sempre più vicino, sempre più lontano.
Restate sintonizzati, se vi va. La spirale si avvolge, e chissà dove ci porterà.

Ritorno al passato
di Stefano Giolo 24 Luglio 2024
A inizio anno ho lanciato qualche messaggio criptico (https://short.staipa.it/cj6jq). Ho detto che avrei parlato meno di informatica e più di diritti, e che avrei avuto altro di interessante su cui lavorare. Tic tac, tic tac, il tempo scorre veloce e non si torna indietro. Siamo già in estate inoltrata e, oltre a scrivere più spesso di diritti e polemipolitica (https://short.staipa.it/i99wb), ho lasciato che il tempo avanzasse senza rivelare il nuovo progetto, che è in realtà un progetto vecchissimo, ormai perso nel tempo.
Oggi è quasi il momento di riavvolgere il nastro. Sarà bello poter rivedere questi messaggi, e presto si intensificheranno. Sarà interessante ripercorrerli come una spirale, prima uno, poi un altro, e così via, fino a un centro che si rivelerà essere un nuovo inizio da cui allontanarsi lentamente verso nuove direzioni.
Avete presente una spirale di Fermat? Una costruzione geometrica che rappresenta una spirale che si avvicina sempre più a un centro per poi allontanarsene inesorabilmente.

[math]r^{2}\ =\ \alpha ^{2}\theta[/math]
La formula è scritta in coordinate polari dove:
[math]r[/math] rappresenta la distanza dal centro della spirale (l’origine)
[math]\theta[/math] rappresenta l’angolo rispetto a un riferimento fisso, generalmente l’asse x positivo
[math]\alpha[/math] è una costante che determina la scala della spirale: più grande è [math]\alpha[/math], più velocemente la spirale si allontana dal centro.
Vivo questo momento così. Un momento iniziato anni fa con segnali rarefatti, dispersi. Una lunga preparazione che sta accelerando verso una sorta di singolarità. Chi mi conosce già intuisce, lo so. Ma non è ancora il momento.
Buona estate dunque. Ci sentiremo ancora, senza dubbio prima di allora, ma sul finire dell’estate potrebbe esserci qualcosa di nuovo in arrivo.
Passaggi temporali
di Stefano Giolo 1 Gennaio 2024
Oggi è il primo giorno dell’anno. Nell’ultima parte del 2023 ho scritto meno di informatica e più di diritti. C’è un motivo ma ancora non lo posso rivelare, ma se tutto va bene quest’anno ci sarà una novità. Lo scrivo soprattutto per chi mi segue da molto tempo, chi conosce le varie anime di questo blog e chi conosce me.
In queste ultime settimane, e nelle prossime, sto lavorando a un qualcosa su cui a tempi alterni ho lavorato per moltissimi anni in varie forme. Porta via buona parte della mia capacità di produrre testi ragionati e frutto di ricerca e anche per questo i testi che avete visto sono soprattutto su temi che “mi accendono” e non su temi di cui pianifico l’uscita nelle settimane o nei mesi precedenti.
Parlo di capacità di produrre testi ragionati e questo credo sarà sufficiente per mettere qualche pulce in qualche orecchio di chi conosce cosa significa per me scrivere. Del progetto specifico, quasi nessuno è al corrente, ad eccezione delle persone più care e di chi ci sta lavorando con me, ma è in continuità con il mio passato.
Man mano che si avvicinerà il momento lancerò qualche altro semino qua e là, così per ingolosire chi sa afferrare i messaggi.
Queste immagini per esempio.




Ma no, non si tratta di un progetto visuale, ovviamente, con la grafica e i disegni sono una capra e queste sono solo immagini create con una Intelligenza Artificiale.
Mi è piaciuto però tornare alla Polemipolitica (https://short.staipa.it/i99wb) e uno degli obbiettivi che vorrei fissarmi per quest’anno è quello di parlare di più di questi temi. A qualche lettore danno fastidio, ma va beh, uno non scrive di questi argomenti per non dar fastidio, anzi, come ho detto più volte è il fastidio che alcune persone provano a dimostrare che scriverne è utile.
Buon inizio dunque. Ci vediamo in giro.
Gocce
di Stefano Giolo 13 Novembre 2019
Era da diverso tempo che si faceva la stessa domanda.
Aveva mangiato come al solito qualcosa al volo, non si ricordava neppure cosa a dire il vero, poi era tornato davanti al computer e si era messo di nuovo al lavoro.
Non era un periodo semplice, la pressione di Luca, il suo responsabile si stava facendo terribilmente forte. Il fatturato aziendale era in netto calo, l’azienda aveva perso un grosso cliente e per riuscire a far quadrare i conti aveva licenziato tutti i consulenti. Marco si trovava addosso tutto il peso di un lavoro che non gli era mai andato giù fino in fondo.
Al culmine di una discussione aveva sbattuto i pugni sul tavolo e si era allontanato per calmarsi, era andato verso il bagno e si era rinfrescato il volto.
Si sentiva confuso. La mente annebbiata non gli permetteva neppure di ricordare che cosa lo aveva fatto incazzare pochi istanti prima. Stava uscendo di testa. Doveva tornarsene a casa.
Si sedette sulla tazza del cesso e fu in quel momento che si accorse di qualcosa di strano sulla camicia. Erano tre gocce rosse. Nella parte bassa, poco sopra Perfettamente tonde spiccavano sul bianco della camicia come fragole su una torta di panna. Si alzò, sistemò i pantaloni e tornò a guardarsi allo specchio.
Controllò che non gli fosse uscito sangue dal naso: sembrava a posto. Eppure quelle tre gocce rosse erano lì, assieme a qualcosa che spingeva nel fondo della mente per emergere. Cercò di tornare indietro col pensiero: che cosa aveva mangiato? Era passato poco più di un’ora dalla pausa pranzo. Eppure qualcosa gli impediva di ricordare. Non era stato un panino? Gli pareva di sì. Ma cosa conteneva? Melanzane, zucchine… c’era o non c’era del pomodoro?
Osservava le macchie e le macchie sembravano osservare lui.
Un brivido gli scorreva lungo la schiena mentre cercava di ricordare cosa avesse mangiato a colazione. O che cosa avesse generato quelle macchie. In genere mangiava biscotti con il caffè latte, solo raramente marmellata sulle fette biscottate. Era uno di quei giorni?
No. Aveva l’impressione che dovesse essere estremamente ovvio da dove venissero quelle gocce ma non riusciva a ricordare. Come se la i ricordi si stessero ritirando ed avvicinando sempre più all’adesco, come se il prima stesse cessando di esistere.
Tornò in ufficio.
-Luca, scusami, mi sento poco bene, avrei bisogno di tornare a casa, è un problema? – Disse.
Chiuse il portatile, indossò il soprabito e si allontanò senza aspettare una risposta.
Fuori, il cielo era azzurro e luminoso. Troppo azzurro. Troppo luminoso per guardarlo. Avrebbe preferito di gran lunga che il mondo sentisse addosso il peso che sentiva lui e invece sembrava che tutto cospirasse per far sì che il suo mal di testa riuscisse a spaccargli il cranio.
Nella mente l’immagine delle tre fragole esplodeva come dei flash. Fragole scomposte, slabbrate, probabilmente marce o avvelenate.
Questa immagine stava mangiandolo da dentro, mordeva e scricchiolava dentro il suo cervello facendosi strada.
Si accorse di essere immobile davanti alla porta della palazzina nella quale lavorava. Era uscito e si era fermato a guardare il mondo.
Una signora camminava spingendo un passeggino, dentro un bambino sorrideva felice. Marco si chiese che fine avrebbe fatto quel bambino tra settant’anni, ancora chiuso in un ufficio, ancora a tagliare pezzi di carne in macelleria o a spalare merda in qualche altro modo. O forse neppure, forse sarebbe finito sotto un ponte sostituito da una macchina che avrebbe fatto il suo lavoro.
-Ridi, ridi finché puoi, perché poi arriverà la vita- Pensò guardandolo.
Sentiva il sole scaldargli la schiena mentre lentamente camminava verso casa, sentiva il profumo nauseante dei fiori che stavano sbocciando, le risate dei bambini alla scuola elementare che finalmente potevano giocare fuori e trapanargli i timpani con i loro urletti striduli e fastidiosi. Lui non ne avrebbe mai avuto uno.
Un agente di polizia gli passò accanto osservandolo e Marco si irrigidì improvvisamente. Non aveva neppure idea di perché gli stesse succedendo ma non voleva essere guardato, controllato, visto.
Tornò a pensare a quelle tre macchie, a quelle maledette tre macchie rosse schifose. L’agente era passato e Marco si voltò a controllare di non essere seguito. Un movimento privo di raziocinio ma non aveva saputo resistere alla tentazione di guardare. Solo questo ci voleva, essere fermato per qualche sorta di controllo e magari finire in qualche guaio. Non bastava il lavoro, la gente felice, i bambini, il sole, le stramaledette noie della stramaledetta vita. Non bastava aver trovato in casa quel bracciale da uomo. Sotto il comodino. Sotto quel fottuto comodino che gli aveva regalato sua suocera. Ci sarebbe mancato anche un arresto per qualcosa a caso. Eccesso di assenza di empatia. Furto di speranza a mano armata.
Che poi che colpa ne aveva lui di tutto quello che stava accadendo nella sua vita?
Che colpa ne aveva se non aveva mai avuto il coraggio di affrontare la verità fino a quel giorno?
Continuò a passeggiare. Mancava poco ormai per arrivare a casa.
Come l’avrebbe trovata?
Non era importante. Ormai non la sentiva neppure più casa sua. L’aveva comprata, aveva fatto un mutuo, sì. E poi? E poi era stata Anna a scegliere gli arredamenti, metà dei quali erano arrivati da sua madre. “Roba usata! Roba garantita! Questo è un Luigi XVI!” O qualunque Luigi o Giovanni fosse. Compreso quel cazzo di comodino. Quel cazzo di comodino con sotto quel cazzo di bracciale. Da uomo.
E di che uomo, tra l’altro! Un genio. Nome, cognome e data della prima comunione, c’erano. Nome, cognome e data della prima comunione. Sotto il comodino. Nella casa di un altro. Accanto al letto.
Con il passo pesante Marco attraversò il vialetto di casa. Lóna, il cane, non abbaiò. Si chiese distrattamente se l’avrebbe mai più sentita abbaiare mentre tornava a pensare a quei tre piccoli cerchi rossi che avevano insozzato la camicia per ricordargli cosa fosse successo. Stava iniziando ora a ricordarlo. Stava lentamente tornando lucido.
Aprì la porta ed entrò in casa. Si tolse il soprabito e lo appese all’attaccapanni.
C’era silenzio. Solo il ticchettio dell’orologio scandiva il passare del tempo. Quanto ne era passato? Quanto ne avrebbe dovuto passare ancora?
Tic. Tac. Silenzio.
Tic.
Tac.
Silenzio.
Si sedette al tavolo della cucina, era ancora tutto lì.
La busta. I fogli. Tutti quei documenti. La penna.
Tic. Tac. Silenzio.
La prese in mano, come aveva fatto ogni giorno di quella settimana. La mano tremava.
Appoggiò la penna sul foglio, ancora una volta. Poi la rialzò, ancora una volta.
Tic. Tac. Silenzio.
Aveva scelto di farlo con l’inchiostro rosso, con la stessa penna a calamaio con cui le aveva scritto la prima lettera d’amore.
Inchiostro rosso, chissà se sarebbe stato valido, ma per lui era importante usare quello.
Tic. Tac. Silenzio.
E fu con quello che firmò il divorzio.
Se stai guardando Greta Thunberg stai guardando un dito
di Stefano Giolo 28 Settembre 2019
In questi giorni si fa un vociare enorme su una ragazzina di sedici anni o giù di lì. Parlano tutti di lei. Chi la osanna come salvatrice del mondo e i dintorni, chi dice che sia controllata dai poteri forti, chi sospetta che ci sia una dietrologia segreta, chi si lamenta che non abbia citato questa o quella nazione perché loro inquinano di più di noi.
Di nuovo come ormai tutto in questa società si sta riducendo la situazione ad un tifo. O sei a favore di Greta o sei contro Greta. Giornali sprecano pagine e pagine a lamentarsi o osannarla. Moltissimi giovani (e non) sono scesi in piazza a manifestare la propria opinione sull’argomento di cui Greta parla e tutti hanno cominciato a parlare di questi giovani. Chi li apprezza per l’impegno, chi si lamenta che vogliono solo saltare scuola, chi nota il fatto che abbiano tutti un cellulare o che inquinino, tutti che discutano sul fatto che siano le persone adatte o non adatte a questo genere di manifestazione, a questo genere di argomenti.
I ragazzi. Greta. Gli attivisti. Il Milan. La Juve. I Comunisti. i Fascisti. Il Bianco. Il Nero. I Giornalisti. Gli Studenti. I Presidi.
Sì. Ma l’argomento di protesta? Il significato della manifestazione?
Proviamo a vederlo con una metafora…
Sei seduto sui binari di un treno, ti ci sei messo tu. Ci hai messo un divano, una tv, il carica batterie del telefonino e ti sei seduto comodo comodo. Poi ad un certo punto è arrivato un tizio con la divisa delle ferrovie e ti ha detto “Ehi, amico, meglio che ti sposti perché sei sul binario del treno. Non che ti stiano per investire ma il rischio è comunque concreto.”
Tu sei abituato a mettere in dubbio le cose: pensiero critico lo chiamano. Non sei come la massa di scemi che credono a tutto. Hai aperto lo smartphone, hai digitato “percentuali di rischio di essere investiti da un treno”, hai scoperto che in genere le persone vengono investite nelle stazioni o nei passaggi a livello. Tu non sei ne in stazione ne su un passaggio a livello. Tutto tranquillo.
Frughi sotto il divano, trovi la caffettiera, la prepari e la metti sul fuoco.
Il tizio dopo un po’ ha cominciato a dirti che tra un tot di minuti passerà il treno diretto per Milano. Che insomma ora le cose si fanno concrete e che c’è pure un orario preciso entro cui se non ti sposti finirà male. Ti spiega che il treno non lo può fermare lui da solo perché senza la tua collaborazione lui può solo limitarsi a verificare dati e darti degli allarmi.
Tu hai di nuovo controllato: non sei in stazione, non sei ad un passaggio a livello. Il tizio deve certamente avere un secondo fine. Vuole rubarti la poltrona? Fa parte di un’industria di poltrone e vuole venderti la sua peggiore della tua? Potrebbe anche essere una vittima inconsapevole guidata da un potere forte e non sapere neppure lui cosa ci sta dietro. Ma tanto tu sai di non essere ne in stazione ne su un passaggio a livello quindi non importa. Tu sei più intelligente di lui. Professorone che non è altro.
Dopo un po’ il tizio comincia ad urlare, agitarsi, girarti attorno e dirti che sei pazzo, che stai per morire, che se non ti sposti sta per finire.
Sicuramente il fatto che si stia agitando è la prova che stai vincendo tu. I poteri forti dietro le sue spalle devono essere davvero tanti.
Nel frattempo vedi passare un uomo vestito da idraulico. Lui ti saluta e tu lo saluti, ma poi ti viene un dubbio. Decidi di chiedergli cosa ne pensa di questo tizio che continua a strillare e lui ti risponde “Non so, io non me ne intendo di treni, però ho sentito dire che anche se il treno stesse arrivando più indietro c’è uno scambio e girerà.”
Tu ti senti rassicurato e continui ad ignorare il ferroviere. Se qualcuno la pensa come te, significa che sei nel giusto.
Qualche tempo dopo arriva una ragazzina che sembra George in IT, e ti dice “Ciao, volevo dirti che io ho sentito il ferroviere. Mi sembra una persona competente e credo abbia ragione. Se non ti sposti tra cinque minuti passerà il treno per Milano e ti verrà addosso. Vedi? Questo è l’orario.”
Forse un minimo di dubbio ti viene ma poi ci ripensi e dici “Ma come? Si tratta di una bambina! Perché ascoltarla? L’idraulico dice che va tutto bene!” Così cominci a bullizzarla. Ti ricordi che ti hanno dato dello stupido da bambino e quella lì ha quella faccia strana, è sicuramente scema. Che poi chi si crede di essere? Un ferroviere? Come può permettersi di dirti cosa fare? E così ti perdi a pensare a lei, a lamentarti del fatto che sia lì che ti osserva con quell’aria inquietante. Poi pian piano un sacco di altri stupidi ragazzini si mettono accanto a lei. Mostrano cartelli, lanciano slogan. Vogliono tutti che ti sposti. Stupidi ragazzini plagiati dai poteri forti. Probabilmente il tizio di prima dei divani ha trovato la via giusta: paga la ragazzina che aizza i ragazzini così sembra tutto più reale. Ma tu sai di essere più intelligente. Sai che non sei in stazione, non sei su un passaggio a livello e soprattutto l’idraulico ha detto che qualcuno gli ha detto che c’è uno scambio più indietro. Stupidi ragazzini.
Poi d’un tratto senti il fischio forte, sembra si avvicini.
Stupida ragazzina. E stupidi i ragazzini plagiati che le vanno dietro.
Tu lo sai cos’è quel suono, è solo il caffè che avevi messo su qualche tempo prima.
Stupida ragazzina. E stupidi i ragazzini plagiati che le vanno dietro.
Tu non sei in una stazione. Tu non sei su un passaggio a livello. E poi l’idraulico ha detto che c’è uno scambio.
La gran parte della gente la sta vedendo esattamente così. E con questo non voglio dire che Greta abbia ragione o torto. Che ci siano o non ci siano poteri forti. Ho una mia opinione (che per la cronaca sta con il 99% dei climatologi, perché so come funzioni una ricerca scientifica e il peer review), quello che voglio dire che è dovreste tutti concentrarvi su se quel treno stia per spiattellarvi o no. Greta indica qualcosa e voi guardate lei e chi le sta attorno invece di guardare quello che vi sta indicando. Giudicate se sia coerente, vestita bene, intelligente, informata, bella, brutta e non guardate cosa sta cercando di farvi guardare.
Quando il dito indica la luna lo stolto guarda il dito.
Proverbio Cinese
E la gente in questi giorni lo sta facendo benissimo.
Ad esempio sono sicuro che buona parte di quelli che ora leggendo stanno borbottando si focalizzeranno sul fatto che ci ho messo una caffettiera ma non un fornello, invece di focalizzarsi sul tema.
Incipiente fine
di Stefano Giolo 7 Luglio 2019
Il respiro non si ferma.
Sento i polmoni riempirsi e svuotarsi. Riempirsi e svuotarsi. Riempirsi e svuotarsi. Ad un ritmo che non so più controllare.
Riempirsi svuotarsi riempirsi svuotarsi riempirsi li sento e ancora e ancora, sbatto i palmi delle mani sul vetro, mi giro. Vetro, vetro, ancora vetro. Sbatto coi pugni mentre dall’alto mi cade addosso acqua fredda ma non importa, perché il gelo è dentro, è solo dentro mentre sento riempirsi svuotarsi riempirsi svuotarsi i polmoni.
Riempirsi e svuotarsi.
Osservo fiorire un male, un dolore, impotente. Lo osservo fiorire come una rosa che un tempo era una piccola radice partita da un seme.
Non l’ho sentito crescere.
Non l’ho sentito piantare le sue grinfie dentro i miei organi, non l’ho sentito fare capolino tra uno e l’altro, non l’ho sentito.
Sento solo il freddo, i miei polmoni riempirsi, svuotarsi, riempirsi, svuotarsi ma so che dentro lui cresce, fiorisce, mette germogli e mentre lui fiorisce io avvizzisco.
Si nutre di me come io mi sono nutrito della carne, del pane, del vino.
Si nutre di me per fiorire stupidamente, senza sapere che alla fine lo porterò con me.
Sento i polmoni riempirsi, svuotarsi, riempirsi, svuotarsi, riempirsi, svuotarsi e non li riesco a fermare.
E vorrei avere qualcuno con cui sfogarmi, vorrei spezzare queste lastre di vetro che mi circondano, anche solo per tagliarmici le vene ma sento solo il freddo, quello fuori, quello dentro, i polmoni, il respiro, il fiore maledetto che cresce, io che avvizzisco e niente.
Niente.
Niente altro.
Sali
di Stefano Giolo 23 Ottobre 2018
I sali essenziali de’ gli Animali possono essere in tal guisa preparati e conservati,
che un Uomo d’ingegno custodisca nel suo Studio un’intera Arca di Noè,
e a suo piacimento possa resuscitare la Forma perfetta d’un animale dalle relative Ceneri.
In virtù dell’istesso procedimento un filosofo può,
senza macchiarsi di criminale negromanzia,
richiamare alla vita uno qualunque dei suoi predecessori,
facendolo sorgere da’ sali essenziali e dalla polvere in cui il corpo fu a suo tempo consumato.H.P. Lovecraft -Il caso di Charles Dexter Ward-
Non avrei mai pensato a quali risultati la mia ricerca avrebbe portato né quali drammatici eventi avrebbe riesumato dalle tenebre dopo quasi un secolo. Avrei potuto pensarci dato lo stato di conservazione perfetto della bambola ma ero accecato dal desiderio, come spinto da una forza superiore, è stato giusto ne pagassi le conseguenze. Tutto è iniziato quando da ragazzo lessi per la prima volta Il caso di Charles Dexter Ward di H.P. Lovecraft. Non che ci abbia mai creduto, ero convinto si trattasse per lo più di fantasia, ma l’idea di riportare in vita qualcuno credo sia un sogno che attraversa tutti noi almeno una volta nella vita. Il mio era quello di riportare alla vita mia nonna.
Ho avuto la fortuna di nascere in un periodo storico ricco di novità e sull’orlo di un cambiamento tecnologico che ci ha permesso di avere letteralmente tra le mani la conoscenza dell’uomo o almeno i mezzi per trovarla e consultarla. Ho visto nascere Internet quando ero un ragazzino ed ho avuto la fortuna di vederla crescere da strumento per pochi a rivoluzione tecnologica, a rivoluzione sociale, fino al deperimento di oggi in cui le informazioni si trovano solo scavando tra infinità di foto da egocentrici, opinioni di ignoranti e falsità. La chiamo fortuna perché conservo il ricordo di come si usasse la rete prima dei social network e di come si faccia sondarne gli anfratti per trovarne il vero. Mio padre è stato un uomo forte e solido di sani principi. Nato alla fine della seconda guerra mondiale ha conosciuto la depressione, quella economica, ed ha saputo guidarmi e crescermi, rendermi curioso di scoprire e supportarmi durante la mia di depressione, questa volta non certo economica. Tra le curiosità che mi ha trasmesso probabilmente la più grande è quella verso la nostra storia.
Mio padre crebbe presso una struttura come orfano di guerra, anche se non si sa con certezza se lo fosse davvero. Sua madre, mia nonna, morì di parto dandolo alla luce e di lei si sa solo che gli aveva lasciato una casa in eredità, di suo padre invece non si sa nulla anche se forse la sua eredità è rimasta chiara nel nostro DNA. Entrambi, io e mio padre, abbiamo dei tratti somatici particolari, potrebbero essere di origini mediorientali, forse ebraiche. Certo potremmo averli ereditati dalla nonna ma in tal caso probabilmente non avremmo ereditato la casa e forse non saremmo neppure nati dato il periodo in cui è vissuta.
Di fatto quello che sappiamo delle nostre origini è nulla.
Compiuti i diciotto anni mio padre è tornato a vivere nella casa in cui è nato, una signora del paese l’aveva tenuta pulita e l’aveva arieggiata regolarmene in attesa del momento in cui sarebbe di nuovo stata abitata. L’unica cosa che questa donna ci trasmise, casa a parte, fu l’amore con cui nonna era ricordata. Quando provai a chiederle qualcosa relativa a mio nonno le risposte erano tutte un
– L’è passà massa tempo, son vecia! Sa vuto che me ricorda? –
mentre le domande relative a nonna ricevevano solo risposte su quanto fosse buona, su quanto la sua vita fosse stata difficile, su come abbia sbagliato fin da piccola con gli uomini ma mai nulla di specifico. Ovviamente anche mio padre aveva interrogato lei ed altri del paese quando non erano ancora abbastanza vecchi da usare la vecchiaia come scusa ma l’immagine del nonno è sempre rimasta avvolta nel mistero e nei segreti.
La casa di nonna è la stessa dove mio padre ha vissuto con mia madre e dove poi io sono cresciuto. I mobili e gli elettrodomestici sono stati rinnovati negli anni, le mattonelle sostituite da un elegante parquet in legno, la soffitta controllata, svuotata e riadattata a studiolo. Dei tempi passati restano ormai solo le pareti in pietra e un piccolo mobile di legno intarsiato su cui poggia una teca di vetro e nella teca una piccola bambola di ceramica. È vestita con un abito che potrebbe essere da battesimo, bianco e con del pizzo ed ha un enorme fiocco bianco sulla fronte. I capelli sono raccolti dietro la schiena in due trecce e il trucco è forte con le guance rosa scuro e le labbra marcatamente rosse. Nella parte posteriore alcune piccole macchie marrone scuro. Mi ha sempre fatto impressione. Forse per lo sguardo triste o lievemente spaventato o forse perché non sono mai stato abituato a bambole di questo genere. Mi è sempre parsa fuori luogo e se possibile evitavo di restare in quella stanza da solo. Mio padre diceva che dovevamo tenerla, era l’unica cosa che gli rimaneva di sua madre.
Gli chiesi diverse volte perché quella bambola dovesse essere così importante da essere l’unico oggetto rimasto di una donna adulta, ma non sapeva rispondermi.
L’idea di provarci sul serio mi venne ormai una decina di anni fa. Se davvero quella bambola era appartenuta a mia nonna era possibile vi fossero ancora tracce di lei. Sono cresciuto nell’epoca di Jurassic Park e della ricerca biomedica ma l’idea di riportare in vita una persona dal suo DNA per quanto irrealizzabile rimaneva insensata per il semplice fatto che una bambina nata dalle stesse cellule non avrebbe avuto i ricordi della donna adulta che aveva generato mio padre. Lessi per la prima volta del viaggio che Lovecraft sembra fece nel 1925 nel Polesine, poco distante da dove sono nato e cresciuto, il viaggio da cui sembra possa aver tratto le idee niente di meno che per il suo Ciclo di Cthulhu traendone ispirazione dai Racconti del Filò, racconti locali su mostri ibridi tra uomo e pesce. Mi chiesi se ne trasse ispirazione o se piuttosto trovò conferma delle teorie che stava scrivendo sotto forma di racconti. Non scrisse forse che di Cthulhu si parlasse in ogni luogo del mondo in forme diverse e in diverse leggende? Mi misi a studiare dettagliatamente i suoi racconti, cercarne le fonti, capire se contenessero parti di verità e quali. Mi chiesi soprattutto da dove trasse ispirazione per Il caso di Charles Dexter Ward. La risposta più ovvia fu Salem, la cita più e più volte nel romanzo stesso e lì doveva stare la spiegazione di tutto. Cominciai a studiare il caso del famoso processo alle streghe del 1692 e trovai le dichiarazioni della schiava Tituba sul coinvolgimento di diversi animali negli atti di stregoneria dell’epoca.
Fu immediato leggendole tornare all’incipit del racconto che stavo studiando “I sali essenziali de’ gli Animali possono essere in tal guisa preparati e conservati, che un Uomo d’ingegno custodisca nel suo Studio un’intiera Arca di Noè,e a suo piacimento possa resuscitare la Forma perfetta d’un animale dalle relative Ceneri.”
Tituba parlò di credenze e superstizioni di origine europea mescolate alle proprie di origine caraibica ma nonostante avesse confessato un omicidio, fosse schiava e di colore non fu processata né condannata, semplicemente se ne persero le tracce. In un paese in cui le streghe ree confesse venivano abitualmente impiccate alla voce di «Non lascerai vivere colei che pratica la magia» (Esodo 22:17)? Tituba il cui nome significa espiare o senza fine in lingua yoruba. La mia ricerca si accese di speranze e proseguì di fatto quasi trasformandomi in quel Charles Dexter che aveva rievocato il proprio avo. Io stesso scordando di temere i pericoli di quello che stavo provando a realizzare.
La rete mi diede non solo il modo di raccogliere informazioni ma anche di sapere dove trovare le informazioni che non contiene, visitai negli stati uniti la biblioteca di un paese vicino a Salem, di cui non voglio riferire il nome perché nessuno mi segua sulla quella strada. Trovai i tasselli che mi avrebbero portato in dieci anni di ricerca al risultato che volevo ottenere. O almeno ad essere in grado di ottenerlo. La bambola rimase rinchiusa in quella teca dove è ancora fino a quel giorno. La estrassi solo qualche minuto cercandone le tracce della bimba che l’aveva posseduta, e trovai con un misto di gioia e di orrore che le piccole macchie marroni non erano che sangue coagulato. Ne grattai via il più possibile e la rimisi nella teca prima effettuare il rito che avrebbe dovuto portarmi a conoscere il mio passato.
Non era il sangue di mia nonna. Fu solo quando ne vidi il volto, i denti storti sporchi, i capelli sporchi e sudici avvicinarsi improvvisamente a me, quando lo sentii dentro, quando la mia mente si mescolò alla sua che compresi, quando divenni l’uomo che avevo evocato. Compresi che non avrei conosciuto il mio passato, né la storia dei miei avi.
Improvvisamente mi ritrovai catapultato nel 1935, ero povero e solo. Nella mia testa scorrevano vite. Era come se dentro di me ci fossero infinite altre anime e voci e ricordi. Era come se fossi stato molti e fossi appena diventato nuovamente uno. Provavo un unico desiderio davanti ad un altare che non conoscevo, davanti a un rito che non ricordavo. Uscii dalla chiesa in cui mi trovavo e corsi per chilometri cercando di fuggire al mio desiderio, di fuggire le pulsioni che dal basso mi spingevano. Mi masturbai. Mi masturbai ancora ma non passava, quel desiderio non passava. Compresi tutto quando vidi una bimba giocare con una bambola bianca di ceramica, compresi tutto guardandomi violentarla senza pietà. Piangevo, e godevo, e soffrivo. E non voglio raccontare oltre. So per certo che quella bambina, divenuta donna non giocò mai più con quella bambola, lasciandola intonsa se non per alcune piccole macchie di sangue ma mi chiedo perché la conservò. So che mi presero solo due anni dopo mentre uccidevo un’altra bimba innocente, so che mi linciarono e mi appesero ad un albero per il collo, dove quando smisi di dondolare gli uccelli mi cavarono gli occhi.
Con orrore mi ritrovai precipitato nel mio tempo e nel mio corpo, consapevole di aver vissuto mille vite e incerto di quale fosse la mia. Con la stessa sete che avevo vissuto nell’uomo che aveva violentato mia nonna. Avevo solo una cosa da fare. Una sola. Trovai il taglierino che avevo usato per grattare via il sangue e con quello mi sgozzai.
Ora sono qui. Nel tuo corpo e non so per quale motivo tu abbia scelto per evocarmi, attraverso quale desiderio io sia passato ma so che voglio vivere. Essere. Continuare.
Io ora sono te.
Teletrasporto
di Stefano Giolo 16 Ottobre 2018
“Ma stai scherzando?” mi disse. “Sono quanti anni che tutti usano il teletrasporto? Ti rendi conto che è un mezzo estremamente sicuro? Molto più sicuro delle skycar o dei jet-x. Se guardi le statistiche gli incidenti in teletrasporto sono un infinitesimo anche rispetto a quelli a piedi! Come fai ad avere paura del mezzo più sicuro di trasporto?”
Lo diceva ridendo, ridicolizzandomi come se fossi uno scemo.
“Non capisci quello che intendo.” risposi “Non è questione di rischio di incidente. So perfettamente che i casi di smembramento sono meno di 10-15, e tutti dovuti al non aver seguito le norme di sicurezza, ma non ha nulla a che fare con quello che sto cercando di spiegarti. Io sono convinto che ad ogni singolo teletrasporto la persona muoia, o gli succeda comunque qualcosa di terribile. Ogni singola vol..”
“Non essere ridicolo” mi interruppe “io l’ho fatto ormai decine di volte e sono qui. Migliaia di persone lo fanno tutti i giorni e anche loro sono al loro posto, che senso ha dire che ogni singola volta il passeggero muoia?”
“È così invece! È per forza così! Quando entri nella macchina il tuo corpo viene smembrato, molecola per molecola, atomo per atomo. Poi dall’altra parte un oggetto non molto diverso da una stampante 3D genera una tua copia, atomo per atomo, molecola per molecola. Ma la tua anima? La tua vera essenza dove rimane?”
“Qui!” rispose lui, “che poi non credo funzioni così, viene creata una specie di Wormhole che ti trasporta fisicamente attraverso una connessione spazio-temporale”
“No, possono dirci quello che vogliono ma ci vorrebbe troppa energia per creare un wormhole e sarebbe troppo instabile, non può essere che come ti sto spiegando io. Distruzione, ricostruzione. Per questo non ci vogliono spiegare il funzionamento.”
“Dai, non essere complottista, l’ho usato decine di volte. Anche fosse come dici tu io sono me stesso, la mia anima è la somma dei miei atomi, è come dire il software che gira nell’hardware del mio cervello, viene ricreata tale e quale”
“Questo è il punto! Viene ricreata. L’essere che viene creato dalla stampante è una copia perfetta di te, ha i tuoi ricordi, ha la tua mentalità, ha una perfetta continuità con te, è convinto di essere te. Ma tu dove sei? Tu sei la copia della copia, di un altra copia di te. Per tutte le volte in cui sei entrato in quella macchina infernale. E tu? Il primo te che fine ha fatto? Cosa ha provato venendo smembrato?”
Rimase a guardarmi in silenzio alcuni secondi. Per un momento credetti che mi avrebbe preso sul serio. Poi intervenne nuovamente.
“Non dire cazzate. Non ha alcun senso quello che dici. Prima di tutto l’anima non esiste, ed in secondo luogo pensi che se fosse così non avrebbero bloccato il tutto?”
“No, non se nessuno ci ha pensato prima, perché comunque chi passa dall’altra parte non ne ha percezione. Cosa pensi accadrebbe se quella che chiamo stampante facesse più copie di te? Quale saresti tu?”
“Lo hanno vietato, dicono che ricreando due volte uno stesso essere umano siano successi dei problemi tecnici che hanno costretto ad abbattere entrambi”
“E che senso avrebbe questo? Se l’anima non esiste ed è solo il software che gira nel cervello riprodurne due sarebbe possibile no? Che prove ci sono che non sia stato fatto ma che non lo vogliano dire per evitare danni? Tutti i teletrasporter sono di proprietà governativa, non si può aprirli, vedere come funzionano, provare a riprodurli. Perché se è un mezzo così normale e sicuro? Perché non è come le vecchie automobili che ormai le puoi costruire in kit di montaggio? Perché il presidente viaggia ancora in jet-x?”
Non era stato in grado di rispondermi ma non aveva mai smesso di viaggiare con il teletrasporto e io non vi avevo mai viaggiato.
La prima volta mi accadde sei anni dopo. Era un emergenza, mia madre era stata male. All’epoca vivevo a cinquemila chilometri da casa dei miei e viaggiavo comunque in jet-x per spostarmi. Il viaggio durava poco più di due ore escluso il tempo perso in aeroporto e trovavo stupido dover risparmiare quelle due ore. Non lo trovai stupido quel giorno. La società per cui lavoro era una delle poche dotate di un teletrasporter, era permesso l’utilizzo solo da parte dei dirigenti ma mi permisero di viaggiarvi per l’occasione. Mia madre sarebbe probabilmente morta in meno di quaranta minuti ed io ebbi il tempo giusto di firmare le liberatorie e farmi teletrasportare nell’ospedale. Mi lasciava perplesso, nella convinzione che sarei morto, l’idea che negli ospedali ci fosse un teletrasporter per far arrivare malati che sarebbero comunque stati uccisi nel tragitto.
Riuscii a salutare mia madre prima che partisse per il suo viaggio e solo dopo ebbi il tempo ed il modo di chiedermi chi io fossi. Ero davvero l’uomo che era partito da cinquemila chilometri o ne ero la copia? Mia madre mi aveva incontrato prima di morire o aveva incontrato un me morto qualche minuto dopo nell’aldilà? All’epoca non ero neppure sicuro esistesse un aldilà. Io stesso non credevo in una vera anima e ritenevo che fosse solo legata al corpo, quello che mi lasciava dubbi era la coscienza del sé. Cosa sarebbe successo alla coscienza del sé del teletrasportato?
Solo anni dopo avrei capito la verità, ossia che all’epoca della morte di mia madre io non esistevo ancora.
Avevo viaggiato diverse altre volte con il teletrasporto, la mia vita era cambiata, ero andato avanti. Non saprei dire quante volte ma abbastanza da scordarmi di averne paura. Abbastanza da convincermi che da giovane ero stato stupido. L’ultima volta, che poi fu di fatto comunque la mia prima è stata pochi istanti fa. Ho messo piede sul teletrasporter con tutta la calma del caso, senza preoccupazione alcuna e ho salutato l’operatrice. Ammetto che ne ero leggermente infatuato, ricordavo di averla incontrata diverse altre volte e di non aver mai avuto lo spunto per approcciarla ma nel contempo non sapevo che era la prima volta che la incontravo, ne che sarebbe stata l’ultima.
Come di consueto il cilindro si chiuse attorno a me e lo scanner scese a registrarmi. Poi come se il tempo rallentasse vissi gli ultimi decimi di secondo della mia vita normale come fossero durati decine di minuti. Lo smaterializzatore partiva dal basso. Una scelta tecnica per diminuire l’usura. Ogni micron di te viene smaterializzata dal basso in modo che sia la forza di gravità a far scendere lo strato successivo. I primi modelli partivano dall’alto con un braccio semovente ma in qualche rara occasione il braccio si era bloccato lasciando parte dell’uomo a sanguinare morto nel cilindro e così avevano deciso che fosse meno cruento, pericoloso e usurante per la macchina smaterializzare dal basso.
Fu come mettere i piedi sulle braci. Solo che i piedi non c’erano più e il bruciore saliva già per le gambe e poi fino alle ginocchia. Non è facile descriverne il dolore perché non era la stessa cosa di una ferita. Una ferita rilascia segnali elettrici nel corpo e questi segnali elettrici con una certa velocità arrivano al cervello, ma se la parte dove hai provato dolore scompare prima che il dolore arrivi al cervello e un altra ondata parte e questo accade in maniera continuativa da ogni parte del tuo corpo è come vivere un onda in crescita ininterrotta. Il cervello quasi esplode prima di scomparire a sua volta.
Ora sono qui.
La mia coscienza è qui. Non vedo nulla, non provo nulla ma se cogito ergo sum è valido io sono. Non posso spostarmi perché il concetto di spazio non esiste, non posso vedere perché senza il concetto di spazio non esiste la luce. Non sono neppure certo che esista il tempo. Potrei essere qui da meno di una frazione di istante o da secoli e non sarei in grado di distinguerne la differenza. Ripeto questo racconto nella mia mente e lo ripeto ancora. Ed ancora lo ripeto e poi ancora ed ancora.
“Ma stai scherzando?” mi disse. “Sono quanti anni che tutti usano il teletrasporto? Ti rendi conto che è un mezzo estremamente sicuro? Molto più sicuro delle skycar o dei jet-x. Se guardi le statistiche gli incidenti in teletrasporto sono un infinitesimo anche rispetto a quelli a piedi! Come fai ad avere paura del mezzo più sicuro di trasporto?”
Nulla
di Stefano Giolo 27 Agosto 2018
Non c’era nulla. Ma non è facile spiegare cosa significhi il non esserci nulla. Quando tu guardi un cassetto vuoto e dici che dentro non c’è nulla non è vero, c’è l’aria. Ma non è tanto quello, la questione è che comunque c’è il cassetto, un contenitore. Un bicchiere vuoto è comunque un bicchiere, un lago prosciugato è comunque una conca piena di sabbia o pietre, un deserto per quanto vuoto è sempre un deserto. Là invece non c’era nulla. O forse è più corretto dire che c’era nulla. Il nulla normalmente non c’è ne nel cassetto vuoto, né nel bicchiere, né nel lago prosciugato né nel deserto. Lì invece era il nulla, guardarvi dentro era esattamente come essere cechi. Non è possibile spiegarlo meglio anche perché nessuno di noi è mai stato cieco probabilmente ma se dovessi immaginare di esserlo lo immaginerei in quel modo, non era nero, non era un buco, non era quello che vedi in una grotta profonda perché tutte queste cose danno una speranza, la convinzione certa che accendendo un lumino qualcosa apparirebbe, anche fosse solo la tua mano. Là dentro no. Solo a guardarlo avevi la certezza che un proiettore luminoso non avrebbe sortito differenze a puntarcelo contro, e che a infilarvelo dentro avrebbe semplicemente cessato di esistere, il proiettore e tutto quello che vi sarebbe entrato.
Guardarlo era come guardare dentro te stesso con gli occhi di qualcun’altro che stai guardando. Una continua vertigine del guardare il nulla e sentire il nulla osservarti dentro mentre lo osservi guardarti dentro. Come ad inquadrare con una telecamera lo schermo su cui proietta l’immagine. Ma tutto questo era solo emotivo, non aveva nulla a che fare con la visione, anzi la non visione di quel niente. Era Nietzsche a dire “Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te“? Il nulla tuttavia non era neppure un mostro, o un abisso, altrimenti sarebbe stato qualcosa ma era lì ed era impossibile distogliere lo sguardo. Paura e desiderio di entrarvi, desiderio e paura di conoscerlo, di farne parte, di esserne parte, di esserlo a mia volta. Era lì, nel paradosso di non essere ma di avere un luogo, un confine che se prima era lontano, nel tempo era divenuto poco distante dal mio volto. Avrei potuto allungare una mano e toccarlo, entrarvi, scoprire cosa fosse o non fosse. Non riuscivo neppure a distogliere lo sguardo per osservare le mie dita prima di spingerle nella sua direzione, non riuscivo neppure più a chiudere le palpebre e il mio respiro accelerava.
Poi una voce mi chiamò alle spalle. Fu allora che riuscii a voltarmi, a distogliere la vista. Quando tornai a guardarlo era scomparso, o al contrario era riapparso il mondo.
Non vi era più nulla, ma tutto.
Di me in me, ossia la storia di chi potevamo nascere
di Stefano Giolo 25 Giugno 2018
Ci ho riflettuto molto in questi anni, ogni volta che mi è successo, o che non mi è successo. Ho fatto ricerche, mi sono documentato: schizofrenia hanno detto.
Non lo è, per il semplice fatto che è reale, che ricordo dettagli che non potrei ricordare se fosse immaginazione. Dicono che negli anni mi si sia strutturata nella testa tutta una quantità di cose che non ho affrontato e che questo abbia costruito dei ricordi che si possono assimilare a ricordi reali ma che non lo sono, come sogni.
Io non ricordo il dolore nei sogni.
Non mi sono mai svegliato dai sogni provando sulla pelle o nelle ossa il ricordo fisico del dolore. Ovvio, dicono che mi sia addormentato in una posizione che mi ha causato dello spasmo, ci sono infinite giustificazioni ma non sono sufficienti. Non lo sono mai del tutto, anche perché non si tratta di sogni: attraverso il confine e vivo l’altra parte, e accade da dopo la prima volta in cui sono morto.
Le obbiezioni quando dico queste cose sono sempre le stesse. Dicono che tutti muoiono ma che si muore una volta sola. Io non lo so, e non lo sanno neanche loro perché non sono mai morti per la prima volta.
La chiamo la prima non perché ce ne siano state altre, so che dovrò morire ancora. Come tutti. Ma credo di dover morire ancora due volte. Una di qui e una di là, perché non è un sogno, non più di quanto io stesso sia un sogno proveniente dal di là del confine.
Ero un ragazzino la prima volta che sono morto, avevo sette anni, due mesi e tre giorni. Un ragazzino normale come tanti. Fino a quel momento avevo avuto una normalissima vita.
Una, normalissima vita.
Avevo appena terminato la seconda media, era il 19 di giugno. All’epoca portavo i capelli a caschetto in stile tazza che andavano di moda negli anni novanta, portavo quasi sempre una tuta di felpa grigia e uno zainetto pieno dei miei tesori, un piccolissimo coltellino trovato per terra, una lente di ingrandimento, una fionda che mio padre aveva piegato su un tondino di ferro e a cui aveva fissato la camera d’aria di una bicicletta, del nastro isolante, un paio di sassi dalla forma strana. Quel giorno avevo appena litigato con Giulia, la mia fidanzatina. Pensavo che il mondo sarebbe crollato perché anche se litigavamo un giorno sì e uno no, nel giorno sì per me tutto si oscurava.
Quello era un giorno sì.
Credo fosse l’emulazione dei nostri genitori a farci vivere in quel modo, i suoi li avrei visti divorziare pochi anni dopo se fossi rimasto vivo, e in effetti li vidi nonostante fossi morto quel giorno. Lo so, non è facile da comprendere ma quel giorno scappai fuori dalla ringhiera del condominio, c’era un albero che sapevo mi avrebbe permesso di arrivare abbastanza alto da salire in piedi sulla scatola di cemento dei contatori elettrici, non era in vista dalla finestra da cui mamma controllava il mondo come il faro di un carcere e con un po’ di fortuna sarei riuscito a scendere dall’altro lato poggiando i piedi sul cofano di un’auto. Fu così. Lo ricordo perfettamente perché i ricordi prima della morte restano vividi nella testa come ad averli vissuti a rallentatore, e perché è l’ultimo ricordo di un me stesso unito e apparentemente indivisibile come ognuno si aspetta di essere.
A volte mi ritrovo a pensare al fatto che tutto questo mondo è fatto di infiniti centri dove ogni essere umano percepisce la vista, lo spazio, il tatto, gli odori, i suoni in un suo modo unico e con l’impressione di esserne al centro. Mi soffermo a pensare che io sono una comparsa per uno sconosciuto che passeggia nel mio campo visivo, che potrebbe non avermi visto e potrei non esistere per lui. Ma questa è una sensazione che tutti provano, quello che fatico ad esprimere è l’essere due. Non due menti in una testa ma due corpi in mezza mente. Ero appena sceso sul cofano di quell’auto e dal cofano sull’asfalto, c’era una piccola rosa quasi viola a spuntare dal muretto, piccola e solitaria. Il mio ultimo ricordo.
Il mio primo ricordo.
Da quell’istante non sono più stato uno.
In genere mi capita quando sono stanco, credo sia capitato a chiunque quello che io chiamo rimbalzare nel sonno. In ufficio, o quando stai leggendo un libro o guardando un film la mente si estranea per qualche secondo e non stai più seguendo quello che stavi facendo, le palpebre si abbassano quasi impercettibilmente. la testa spesso si abbassa un po’ e il movimento risveglia l’apparato vestibolare dando quella minuscola carica adrenalinica che costringe le palpebre a spalancarsi e il collo a irrigidirsi riportando in posizione la testa, dopo qualche minuto il processo riprende con le palpebre che si abbassano, la testa, l’apparato vestibolare, la carica adrenalinica, le palpebre a spalancarsi, la testa a rialzarsi e ancora fino a scegliere di bersi un caffè, un grande bicchiere di acqua, lavarsi la faccia, andare a letto o qualsiasi scelta si possa fare per uscire dal ciclo, per smettere di rimbalzare. Quello è un luogo, o un tempo, di sottilità. Dove lo spazio e il tempo sono sottili tanto da sfiorare altri mondi, e non intendo tra il mondo reale e quello onirico anche se forse è proprio questo il concetto. Una sottilità tra più spazi e più tempi. Non ho ancora imparato ad attraversarla consapevolmente per quanto ci abbia provato negli anni, ma so che è possibile. La parte difficile è riprendere il controllo senza svegliare il corpo di qua, senza che l’apparato vestibolare ti costringa a ritirare la mano con cui hai attraversato la superficie che come un lago verticale divide un mondo da un altro.
Quella piccola rosa era davanti a me e da quel momento, dal momento immediatamente successivo per essere precisi, ho due ricordi perfetti e precisi. Nel primo, quello che non mi porta qui, sorridevo pensando che al mio ritorno avrei dovuto coglierla e portarla a Giulia ero pervaso da un improvviso stato di benessere consapevole che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi, è così la mente dei bambini. Un istante piangi come se tutto l’universo ti fosse contro e l’istante dopo il mondo sorride e non ricordi neppure perché la rabbia ti aveva fatto fuggire. Mi voltai e feci tre passi oltre il muso dell’auto parcheggiata, al quarto divenne tutto buio. Ricordo il tempo rallentare e riesco ancora a guardare tutto come in un film con il grandangolo. Se guardo in alto vedo il cielo azzurro e due nuvole bianche, più in basso invece la vista si offusca da sinistra a destra con un oggetto che lentamente invade la vista, uno scatto improvviso che spegne tutto il lato sinistro dello schermo ed infine vedo spegnersi anche il lato destro. Se guardo più in basso vedo il mio corpo contorcersi a partire dall’anca che ruota disarticolandosi dalle spalle e si alza verso destra mentre la testa rimane immobile. Il tutto poi venire poi sostituito da una superficie bianca azzurra lucida, ma l’azzurro potrebbe essere il riflesso del cielo. Ho tutto il tempo di chiedermelo ma non riesco a decidere comunque. Poi tutto si spegne e diventa nero. Pochi istanti prima mi ricordo a guardare quella piccola rosellina e pensare che avrei potuto portarla a Giulia, sicuramente ero in tempo per riparare il danno e vedere le lentiggini sulle sue guance muoversi sul suo sorrisone, ero pervaso da un improvviso stato di benessere consapevole che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi, è così la mente dei bambini. Un istante piangi come se tutto l’universo ti fosse contro e l’istante dopo sorridi consapevole che il mondo è buono e ti proteggerà sempre. La colsi e tornai senza pensare verso il cancelletto di casa. Sapevo che mia madre mi avrebbe scoperto e sgridato ma non c’era un modo sicuro di rientrare oltre la ringhiera e poi dovevo tornare da Giulia con il mio trofeo il prima possibile. Non avevo un’avventura da eroe da raccontarle per il coraggio di recuperare per lei un fiore da fuori del regno della regina cattiva?
Quando torno a pensare a questi due ricordi e ai successivi non li so distinguere. Ho la certezza di essermi risvegliato in un altro mondo dopo l’incidente, un mondo di mortali e non un paradiso o un inferno per quanto un bimbo innocente possa finirci. All’inizio non ricordavo di essere morto, né di Giulia o della rosa, non ricordavo nulla. Mi ero svegliato come da un sogno in un letto. Ricordo come mi facessero prurito le gambe e di come dei lacci mi impedissero di muovere le braccia per grattarmi. Credevo di essere in un incubo ma il dolore che sentivo al piede era troppo reale per essere finzione. Quando arrivò l’infermiera mi resi conto dal suo sguardo, e dai suoi vestiti, che qualcosa non andava. “Piccolo, come stai? Abbiamo dovuto legarti ma non temere” disse. Indossava un vestito verde con molte macchie scure e il suo sguardo era triste. Riuscii a stento a guardarmi attorno e vidi che in questo ospedale non c’erano pareti ma altri letti con bambini, adulti, moltissimi letti e pochissimi infermieri. “Ti va se ti libero la mano?” disse. “Sì”, risposi. “Però…” sospirò “non riesco a dirglielo” mormorò tra sé e sé.
Non mi sembra un ricordo meno vivo di quello in cui mia madre urlava dalla finestra “Cosa ci fai fuori? Adesso vengo giù e te ne buschi un paio di quelli giusti” e scendeva con la furia di un caccia bombardiere a colpirmi con due missili di mano pesanti come macigni. Li presi stoicamente stringendo forte il gambo della rosa dietro la schiena. “Cosa ci facevi là fuori?! Non azzardarti mai più a farlo! Adesso subito su in castigo!” questo non l’avevo previsto. E Giulia? E la rosa? Quando mi capita di rimbalzare sul sonno talvolta oscillo. Oscillo tra i mondi e i ricordi e sono il bimbo in quell’ospedale, e sono il bimbo attaccato da quel caccia bombardiere di madre, e ho colto la rosa e non l’ho colta. Quando smetto di rimbalzare mi alzo in piedi e per andare a sciacquarmi la faccia e so solo in quell’istante quale di quei due bambini sono.
Quello in grado di alzarsi in piedi sulle proprie gambe.
Dopo che l’infermiera mi aveva liberato la mano la prima cosa che feci fu allungarmi per togliermi quel prurito e cercare di capire perché il piede mi facesse male ma qualcosa non era come mi aspettavo. “Non ricordi, vero?” disse l’infermiera. “Cosa?” dissi io gelato nonostante il caldo torrido. “Non c’è un altro modo per dirtelo, Ahmed. Una mina. Sei finito su una mina. Come Jūl̊yā ieri, ma tu sei stato più fortunato.”
“Jūl̊yā?”
“Sì, la tua amica, non ricordi?”
Non avevo più le gambe. Le sentivo, sentivo il dolore al piede come fosse ancora lì ma il lenzuolo era inesorabilmente vuoto. Non c’era niente là sotto. Niente.
Anche da questo lato della realtà ho spesso provato dolore a quel piede dopo aver rimbalzato sul sonno, dopo aver oscillato. Mi hanno detto sia un problema di circolazione sanguigna. Sì, potrei crederci se non fossi certo che non è così. Se non ricordassi i mesi di riabilitazione, l’ospedale di Emergency, l’infermiera Sara, la dottoressa Alice, il dottor Mark. Se non ricordassi la difficoltà di crescere e diventare grande. Eppure ho due gambe, un po’ di acciacchi dovuti allo scarso sport e allo stare spesso seduto, sono un ingegnere di discreto successo e Giulia è viva anche se si è sposata da poco con quello sfigato di Andrea.
O forse è morta su una mina accanto a me.
Ricordo anche tutta la fatica per provare a raggiungere una nazione che non fosse l’Iraq in cui ero nato. Credo di essere arrivato qui. E per qui intendo qui. Nella mia città.
In realtà lo so. Perché sono qui, e sono stato picchiato, ho dormito al parco scendendo e issandomi da solo sulla sedia a rotelle che mi è stata data. Una sedia degli anni 70 pesante non so quanti kg ma abbastanza per muovermi e chiedere l’elemosina. Forse dovrei incontrarmi. Forse dovrei vedermi con me e darmi qualcosa per stare meglio, fare qualcosa. Ma in fondo non saprei come aiutarmi, e mi vergognerei di me stesso.
Forse è meglio dare ragione al mondo, devo essere schizofrenico.
Devo. Essere schizofrenico.
Tracce
di Stefano Giolo 9 Aprile 2018
Gocce rosse. Questo erano e questo sarebbero potute restare. Solamente delle stupide gocce rosse sul selciato di arenaria rosa in una piazza piena di gente. Stupide gocce rosse. Forse avrei potuto continuare a pensare che il mondo fosse un mondo normale, dove le persone sono al sicuro e al massimo ti aspetti di incontrare qualcuno di cattivo umore che ti tratta male per rimuginarci su. Ed invece no. Mi accorsi quasi subito che quelle erano macchie di sangue, piccole ma ravvicinate. Venivano da una parte ed andavano dall’altra. Difficile sapere da quale a quale. Rimasi ad osservarle un po’ mentre tutto attorno le persone continuavano a camminare troppo indaffarate per vedere quello che stavo osservando io. Le tracce giravano attorno all’angolo di un palazzo e fino a dove riuscivo a vedere proseguivano lungo la facciata. Non sembrava esserci nulla di anomalo, ci fosse stato probabilmente ci sarebbe stata dell’agitazione, polizia, croce rossa, qualcuno. Stavo per andarmene quando una punta da dentro mi si piantò da qualche parte, e se qualcuno stava male ed ero l’unico ad essersene accorto? Come un topolino che scava nel cervello quell’idea si fece sempre più forte. Sapevo avrebbe continuato a scavare e scavare e scavare fino a che non fossi andato a controllare da dove provenissero quelle gocce, fino a che mi fossi assicurato di non lasciare un essere umano in pericolo. La cosa poteva essere accaduta in piazza e la persona camminare verso la stazione, decisi di seguire le tracce dietro all’angolo del palazzo. Le gocce erano di circa due centimetri di diametro, qualcuna un po’ più piccola e qualcuna un po’ più grande, non erano molto distanziate il che mi faceva pensare che chi le aveva perse non stava correndo. Immaginavo qualcuno che dopo essersi tagliato avesse cercato di tamponare una ferita con un fazzoletto e il fazzoletto che una volta imbevuto perdeva goccia a goccia. Non doveva essere una arteria recisa, il sangue sarebbe stato a schizzi ma comunque la quantità di gocce non era da trascurare, in alcuni punti erano più ravvicinate, forse si era fermato a chiedere aiuto, in alcune invece si distanziavano che quasi rischiavo di perderne la traccia. Molte erano sbavate, rovinate, calpestate dai passanti che non si erano accorti di nulla, camminai per qualche decina di metri poi persi le tracce. Lo trovai strano. Se il ferimento fosse avvenuto lì ci sarebbe stato più sangue, forse in quel punto la persona era salita su un mezzo, per un istante pensai che comunque fosse a quel punto non era affar mio. Sentii però il roditore scavare ancora. Poteva essere sceso da un mezzo e forse all’altro capo di quella collana di perle rosse avrei trovato risposte. Le seguii a ritroso. Cercai di ragionare sulla direzione che potessero indicare ma non mi venne un modo per farmene un’idea, poi persi le tracce più o meno a metà della facciata del palazzo. La ricerca era finita pensai, non aveva portato a niente ma forse era positivo. Forse era meglio non aver trovato nessuno. Continuai a passeggiare sovrappensiero. Ne vidi un’altra. Piccola. Una piccola macchia tonda e rossa. Mi fermai e mi guardai attorno, guardai più avanti. Proseguivano, ce ne erano delle altre. Tic. Toc. Tic. Toc. Cominciavo a sentirmi come se tutte le persone attorno avessero cessato di esistere, come se nulla a parte quel pavimento lastricato esistesse, come se quelle gocce scandissero il tempo e l’universo fosse riassunto in quei pochi metri di campo visivo. Poi me lo trovai di fronte.
Era in un angolo buio, tra il palazzo stesso e l’antica cinta muraria, c’era solo un cassonetto a nasconderlo. Lui era lì. Mi guardai attorno prima di avvicinarlo, le persone camminavano a pochi metri ma sembravano ignorare completamente quell’angolo abituate a camminare di corsa a non pensare di sbirciare in una zona dove non c’era altro che un cassonetto al buio, accanto al palazzo più visto e conosciuto di questa città. L’uomo era chinato a terra, le gambe piegate e il corpo raccolto in posizione fetale, la testa appoggiata al muro. Le gocce arrivavano fino a sotto di lui. Aveva capelli radi e bianchi, lunghi e sporchi e le sue spalle si alzavano e abbassavano in sincronia con una nuvola di vapore che si alzava ad ogni respiro.
“Signore, tutto bene?” chiesi, “Signore?”.
Nessuna risposta.
“Ha bisogno di aiuto? Posso fare qualcosa per lei? Chiamo i soccorsi?”
L’uomo rimase immobile, il respiro regolare. Mi guardai intorno, avrei potuto chiedere aiuto a qualcuno se mi avesse assalito, magari aveva un coltello o magari… mi parve un pensiero stupido e ordinai al topo nella mia testa di starsene calmo mentre mi avvicinavo all’uomo e gli mettevo una mano sulla spalla.
“Signore…” non so dire se stessi chiamando il vecchio o invocando il santissimo, il volto di quell’uomo aveva qualcosa di inspiegabile a parole. Non posso dire fosse un mostro ma aveva un’inquietudine nello sguardo che andava oltre il mio livello di comprensione. Gli occhi sembravano quelli di un giovane guerriero, quasi senza rughe, le guance invece erano segnate dalla vecchiaia e forse da un tumore alla pelle. Il topo nella mia testa stava correndo all’impazzata nella sua rotellina, incapace di allontanarsi ma voglioso di farlo, i miei muscoli rimasero bloccati per qualche secondo mentre pensavo cosa avrei dovuto fare. Tra le braccia del vecchio c’era un gatto, un gatto bianco e arancione a pelo lungo, il pelo sporco di sangue, la lingua grigia e morta che spuntava dalla bocca, la pancia aperta da cui uscivano le interiora. Non sapevo se agitarmi o rilassarmi. L’uomo in fondo stava bene.
“Il gatto è suo? Ho visto le macchie di sangue per strada, immagino sia stato investito qui vicino, temo non ci sia molto da fare. Se vuole la accompagno da un veterinario che conosco ma…”
L’uomo si girò di scatto a guardarmi. Mi guardava negli occhi con uno sguardo che diceva tutto e niente. Diceva “taci” e “non voglio sentire altre inutili stupide parole” e niente. Mi sentii gelare l’anima mentre guardandomi fisso iniziò a muoversi. Con una mano teneva fermo il corpo del gatto con l’altra scavava nel corpo con due dita come cercando qualcosa, solo quando riuscì a trovarlo tirò e strappò via un piccolo fagiolo scuro, supposi fosse un rene, e se lo mise in bocca. Continuava ad osservarmi fisso negli occhi mentre masticava lentamente.
Mi voltai in cerca dello sguardo di chiunque, di qualunque persona, di un poliziotto, della semplice realtà a cui appigliarmi per non cadere dentro la mia mente. Sentii uno schiocco, per qualche istante pensai al topo nella mia testa che sembrava immobile. Ogni pensiero mi parve congelato. Poi sentii di nuovo quello schiocco, era dietro alle mie spalle. Mi girai a guardare e vidi quell’uomo, quel mostro, con in mano una zampa del gatto. Dopo averla strappata aveva iniziato a mangiarla così come era. I peli rimanevano attaccati al volto sporco di sangue sotto quegli occhi immobili che continuavano a fissarmi. Mi sedetti accanto a lui e mi porse un’altra zampa. Doveva essere stata questa la causa del secondo schiocco. Non so dire cosa mi fosse successo ma dividemmo quel pasto, in silenzio. Senza scambiare una parola. Non venne nessuno a cercarci, nessuno si avvicinò al cassonetto. Finito di mangiare mi alzai e me andai. Non vidi più quel vecchio e non ne sentii mai parlare, ogni tanto guardandomi allo specchio passo le dita sulle rughe che ho sul volto, sono passati anni, decenni ormai e ogni tanto mi chiedo che cosa fosse accaduto. Guardo i miei capelli bianchi, radi e nella mia mente il mio volto si confonde con quello del vecchio.
Oggi un gatto miagolava fuori dalla porta di casa mia, non avevo più pensato a quel giorno.
Forse mai, ci avevo pensato.
Torna da me
di Stefano Giolo 29 Novembre 2017
Aveva sognato ogni giorno di rivederlo, ma non avrebbe mai pensato sarebbe potuto accadere in questo modo. Il suo fratellino se ne era andato ormai da due anni, un anno, sette mesi e ventidue giorni. E tre ore per l’esattezza, o almeno così avevano detto quelli della polizia. I minuti non era dato saperlo perché il corpo era stato trovato troppe ore dopo e la precisione di queste cose diminuisce nel tempo. Lo avevano trovato in un prato, stringeva forte il suo Batman, l’eroe che avrebbe voluto essere ma che quella volta non era riuscito a salvarlo. Non aveva piovuto, era un giorno di un tardo settembre e il bel tempo aveva contribuito a mantenere le tracce pulite e a non adulterare il piccolo corpicino in anticipo. L’avevano trovato sdraiato a faccia in giù nella terra senza nessun segno di violenza ma troppo lontano da casa per poter esserci arrivato da solo. Solo ad un esame più approfondito trovarono nel sangue Arsenico e nello stomaco una discreta dose di Coca-Cola. Probabilmente una forma moderna dell’acqua Tofana offerta da chissà chi. Il corpo era poi stato pulito in ogni suo punto, rivestito e lasciato in quel punto senza lasciare traccia alcuna. Neppure nelle celle telefoniche, neppure orme nel prato. Non vi erano tracce di violenza, non vi erano tracce e basta. Arsenico a parte. Quello era stato lasciato come a indicare volutamente la causa della morte. Una domanda rimasta inespressa era stata quella di perché occuparsi di far sparire ogni traccia ma non usare un metodo meno palese dell’arsenico. I colpevoli non furono mai trovati.
Aveva sognato ogni giorno di rivederlo, ma non avrebbe mai pensato sarebbe potuto accadere in questo modo. Era un mattino di un anno, sette mesi e ventidue giorni e tre ore dopo del momento, che le avrebbe cambiato per sempre la vita e suo fratello, congelato nei sei anni che aveva quando aveva lasciato questo mondo era lì di fronte a lei immobile dall’altra parte della stanza. Poteva essere solo un’ombra, un’allucinazione, una delle tante volte che lo aveva immaginato fino quasi a vederlo, poteva essere una di quelle immagini che vedi di sfuggita con la coda dell’occhio e poi se ne vanno quando le focalizzi ma era lì. Era ancora lì nonostante gli si stesse avvicinando. Il volto era più magro di come lo ricordasse, come se la pelle faticasse a rimanere su e tendesse a cadere come nel volto di un vecchio, sembrava quasi trasparente e fragile come carta velina, chiara e incartapecorita. Eppure sembrava così lui, così vivo, così rosa al contempo. La osservava silenziosamente con quel suo sguardo che ti trapassa, non sbatteva mai le palpebre. Non lo noti mai che una persona le sbatta, ma fu il contrasto forte di non vederlo accadere che le gelò il sangue e la fece fermare.
“Andrea. Sei tu?” disse.
“Anna, sei tu?” rispose lui.
Lacrime calde e copiose sgorgarono come una cascata improvvisa dagli occhi della ragazza. Le sue preghiere erano state esaudite?
Il bambino alzò le braccia allungando le mani verso lei, il palmo di una mano aveva qualcosa di strano, che tolse d’improvviso l’entusiasmo alla ragazza. Il bambino iniziò ad avanzare lentamente con movimenti innaturali come se le ginocchia riuscissero a muoversi solamente di pochi centimetri, come se le caviglie non fossero in grado di flettere. Il palmo della mano avvicinandosi mostrò che cosa lo rendeva strano, la pelle era aperta e attraverso si vedeva un osso.
“Andrea… sei tu?”
“Agggnna, ffei gù?” rispose lui.
Prima, quando lo aveva sentito parlare aveva sentito parlare aveva questa stessa pronuncia strascicata e marcia o le era sembrato normale? Non ne era più sicura. Non era più sicura di nulla se non del gelo che sentiva partire dal petto verso il collo. Solo una volta ricordava di essere rimasta così bloccata dal terrore. Era piccola e doveva lanciarsi da quello scivolo altissimo al parco acquatico, era stata poi spinta da un bambino ed era caduta nello scivolo, presa dal panico aveva rischiato di affogare una volta arrivata alla piscina e il bagnino l’aveva salvata, ora provava quel terrore ma anche il soffocare di dentro all’acqua e non sarebbe arrivato nessun bagnino.
Sentì la pelle di suo fratello toccare l’avambraccio, una pelle molle come frutta andata a male e ruvida come cartapecora. La parte molle doveva essere quella più vicina all’osso. Una pelle fredda come non aveva mai sentito nulla. Le provocò un brivido che la scosse abbastanza da strappare via il proprio braccio dalle grinfie di quella cosa.
“Gnaggna noo puuura” disse quella cosa ma era già alle spalle mentre la ragazza prendeva lo slancio per correre.
Era accaduto solo poche ore prima, o almeno quella era l’impressione. Aveva lasciato casa di Giovanni giusto dall’altra parte della via e stava andando a casa. La mamma di Giovanni aveva appena chiamato mamma per avvisarla, c’era freddino ma Andrea pregustava già il caldino che avrebbe trovato in casa e le braccia amorose che lo avrebbero accolto, aveva una bella famiglia lui, non come quella di Giovanni che aveva il papà che lavorava sempre via. Fu mentre era immerso in questi pensieri che vide arrivare un’auto veloce, gli frenò accanto. Per un momento aveva pensato che sarebbe stato investito ed invece no, non accadde. La mamma si sarebbe arrabbiata tantissimo se fosse stato investito. Fece per girare attorno alla macchina ma un uomo scese e lo guardò fisso.
“Ciao bambino, che ne dici, lo vuoi un dolcetto?”
Andrea rimase un paio di istanti a penarci. Troppi. Mezzora dopo era in un posto che non conosceva. Aveva dormito durante il viaggio. Doveva essere sotto terra, o forse erano solo le finestre chiuse ma era buio. Vide accendersi delle candele attorno. Era sdraiato su di una pietra fredda, sembrava il piano della cucina di mamma ma molto più grande, e non bianco. Non riusciva a vedere molto perché non riusciva a muovere la testa se non di poco, sentiva le braccia e le gambe bloccate ma era stanco, troppo stanco per cercare di spingere di più.
“Tranquillo piccolo, non muoverti, sono la dottoressa” disse una voce accanto a lui. Non era una voce familiare ma non ricordava la voce della dottoressa. Anzi era quasi sicuro di aver avuto un dottore. “Se non ti muovi non ti farà male” continuò la voce. Il dottore glie lo diceva sempre prima di fagli le punture. Ed era vero. Una volta aveva provato a muoversi e si era staccato l’ago e gli aveva fatto tantissimo male, e mamma si era agitata e anche il dottore e poi aveva pianto e alla fine la puntura glie l’avevano fatta di nuovo da un altra parte quindi probabilmente era davvero meglio stare fermo.
Le candele si erano accese una ad una attorno a lui, erano a cerchio. Non aveva mai visto una medicina così, e a dire il vero non gli sembrava di essere ammalato.
“Dov’è mamma?” disse.
“Tranquillo, è qui. Dall’altra parte della porta, ti senti stanco vero?”
“Sì”
“Sei stato poco bene. Mamma ti ha portato qui, e ora ti dobbiamo curare, ma tu stai fermo e tranquillo vedrai che tra poco starai bene”
Vedeva attorno delle ombre muoversi ma non capiva la direzione da cui arrivava la voce, era come se molte voci sotto questa sussurrassero, gli ricordava un po’ il rosario, o le litanie in chiesa. Lo facevano sentire tranquillo perché don Mario è un uomo buono e anche se si annoiava tanto a sentirlo sapeva che gli faceva bene anche se non aveva mai visto il dottore con don Mario nella chiesa. Aveva l’impressione di poter girare la testa e riusciva a muovere le braccia.
Fu una sorpresa riuscire a girarsi del tutto e trovarsi a faccia a faccia con un bambino identico a sé. Stava volando a faccia in giù su un bambino identico a sé. Salì più in alto osservando la dottoressa e gli infermieri muoversi nel buio. Indossavano strani vestiti come quello di mago Merlino ma neri. Poi tutto scomparve all’improvviso.
Era in salotto. Era in salotto immobile in piedi e Anna stava entrando dalla porta. Sembrava strana, come fosse diventata più alta. I capelli erano diversi, con delle strisce più chiare, e il viso era un po’ più allungato, era strana.
“Andrea. Sei tu?” le sentì dire, era come se la voce venisse da lontano, come essere dentro a una scatola e sentire il suono provenire dall’esterno.
“Anna, sei tu?” non gli venne niente altro di più intelligente da dire ma anche il suono della propria voce sembrava distorto e lontano, aveva avuto l’impressione che muovere le labbra e la lingua fosse terribilmente difficile, ma questo non aveva a che fare con il fatto che il suono era come non provenisse da dentro di se ma da fuori da una scatola. La lingua, la bocca, le gambe, le braccia, tutto sembravano come quando capita di sedersi troppo a lungo sulla gamba e questa perde sensibilità. Era così l’intero corpo.
Anna sembrava strana, quasi allarmata, forse doveva solo andare da lei e abbracciarla. Probabilmente e un abbraccio forte avrebbe fatto bene ad entrambi. Le braccia sembravano così pesanti alzandole.
“Andrea… sei tu?” sentì dire come se la voce provenisse da ogni direzione. Qualcosa non andava. C’era qualcosa di strano e forse quella non era sua sorella. Perché sembrava così cresciuta?
“Anna, sei tu?” disse. La ragazza, sua sorella, sembrava bianca e spaventata, era rimasta immobile con la bocca aperta. Andrea decise di avvicinarsi a lei e toccarle il braccio. Avrebbe sempre potuto scegliere se scappare o abbracciarla.
“Anna, ho paura” disse. Lei strattonò via il braccio e cominciò a correre.
“No Anna, aspetta” disse provando a seguirla. Lei era sempre stata più veloce ma questa volta raggiungerla sembrava ancora più difficile del solito. Era come se le gambe rispondessero in ritardo e il sentirle intorpidite non aiutava. Ad ogni passo sembrava cedessero anche se non sentiva il consueto formicolio.
“Gno Gnnana aappaasaaa” quell’essere continuava a urlare alle sue spalle, non aveva il coraggio di voltarsi. Entrò in camera e sbatté la porta. La chiuse a chiave e si infilò sotto la scrivania. Cosa sta accadendo? Rimase in attesa con la testa tra le mani e le lacrime che piovevano come una fontana. In casa non c’era nessuno che avrebbe potuto aiutarla e salvarla. Salvarla da cosa poi? Cos’era quella cosa? Forse se l’era solo immaginata.
In fondo non c’era più alcun rumore da un po’. Forse avrebbe dovuto uscire da quella stupida scrivania e tornare fuori dalla stanz TUMP, TUMMP. TUMP. La cosa batteva alla porta e faceva i suoi versi, era ancora lì.
Ci aveva messo più del previsto a raggiungere la porta, Anna si era chiusa dentro a chiave.
“Cosa succede Anna? Perché sei scappata? Ho paura!” disse mentre batteva sulla porta con i palmi delle mani. Avrebbe voluto piangere ma non sgorgavano lacrime. Batté più forte ma dopo alcuni tentativi accadde qualcosa che non credeva possibile. Tre dita della mano si ruppero senza dolore. Erano piegate verso il centro della mano. Si fermò a guardarle e si sedette a terra.
“Ti aspetto qui”, disse “quando stai bene.”
La cosa fuori dalla porta smise di battere. Passarono alcuni minuti e di nuovo le parve che la realtà si aggiustasse, è strano come siano veloci ad attenuarsi nella le situazioni assurde. O che riteniamo assurde. Passarono solo alcuni minuti prima che ricominciasse a pensare che doveva essere stato tutto un sogno. Non c’era niente fuori di quella porta al di fuori dell’immaginazione, niente di cui aver paura. Presto sarebbero arrivati mamma e papà e avrebbero sorriso di tutto questo quando glie lo avrebbero raccontato. Non c’era nulla da temere.
Si alzò e avvicinandosi lentamente alla porta ascoltò con attenzione i suoni.
Nessun rumore.
Anna finalmente aprì la porta, sembrava ancora un po’ spaventata ma molto meno di prima, era il momento di abbracciarla, sarebbe stata di sicuro subito meglio, e sarebbe stato meglio anche lui. Era il momento giusto.
Quella cosa era ancora lì, non fece in tempo ad evitarla. Le braccia molli e secche al contempo avevano una forza spaventosa mentre bloccavano il collo della ragazza. Provò a dimenarsi ma non riusciva a colpire quello che sembrava così tanto il suo fratellino, non riusciva ad opporsi rischiando di farne violenza. Si mise a piangere mentre faticava sempre più a respirare. Pianse. Non le era rimasto altro.
Pianse mentre osservava, da fuori, il proprio corpo a terra.
Andrea, bello come era stato due anni fa, le porgeva la mano ed assieme si allontanarono da quello che ormai era un guscio di carne morta.
Sogno concentrico
di Stefano Giolo 27 Ottobre 2017
Non avrei dovuto uscire di casa con questa stanchezza addosso, lo so. Ma non posso farci niente se devo andare proprio ora a... dove sto andando. Ho talmente sonno che non ricordo esattamente dove volevo andare. Ma sono qui e… D’un tratto, improvvisamente mi sveglio. Merda stavo addormentandomi alla guida?
Il guardrail è pericolosamente vicino al fianco, giro il volante, le ruote fischiano o sto dormendo? Sono nel mio letto che dormo o il sonno alla guida mi sta stordendo? Sembra quasi che il tempo rallenti e tanto vale la lasci andare questa macchina, mi sveglierò, no? O mi ritroverò schiacciato nei resti di un’auto contorta, schiacciato. No. Sto dormendo ed è tutto un sogno e niente altro mentre il frastuono del metallo contro il metallo riempie ogni parte del mio cervello buttando fuori ogni pensiero, non provo dolore -ancora- deve essere un sogno di poter svegliarmi al di fuori di un sogno.
E poi buio.
Buio.
Ora
di Stefano Giolo 23 Ottobre 2017
Oggi sono andato a correre. È stato strano. Mi sembrano secoli che non andavo a correre al tramonto, forse mi ricorda un po’ quella volta che al tramonto sono andato a camminare con lei, con i capelli del colore del sole, ma da quello sembrano passati millenni. C’era quell’atmosfera di freddo pungente che si contrappone al caldo del mio corpo e di caldo del mio corpo che si contrappone al freddo dentro. Una sensazione strana, mi ricorda di quella volta in cui sono stato investito.
Questo lo ricordo come fosse ieri. Sono sensazioni che difficilmente scivolano via dall’anima, te le porti dentro comunque vada.
Quel giorno credevo fosse uno come un’altro, avrei dovuto andare a correre il giorno dopo ma sarebbe stato un mese da che mi frequentavo con Lei. Avrei dovuto andare a correre il giorno dopo ma quel giorno non avevo di meglio da fare se non correre, sfogare il corpo e l’anima, tornare a casa, cucinare per Lei che mi avrebbe raggiunto più tardi. Certo avrei potuto leggere quel libro che stava sul mobiletto, avrei potuto studiare inglese, avrei potuto organizzare quel viaggio a Parigi, ma volevo correre e uscii. Mi sentivo in discreta forma nonostante il mio stato fisico e lo scarso allenamento, la musica sparata in cuffia era un tonico per la mente e per il corpo ma già solo il pensiero di Lei sarebbe stato sufficiente per rendermi un supereroe.
È stato improvviso. Come quelle cose che vedi solo nei film quando l’attore un’istante prima c’è e un’istante dopo al suo posto c’è un pullman. Nel mio caso era un suv. Non saprei dire il modello, non saprei neppure dire chi lo guidasse se ci penso. Non ricordo assicurazioni, ospedale, preoccupazioni, ma in ogni caso ricordo fosse un suv. Bianco ovviamente. Prima c’ero io e poi un’istante dopo il suv. Non so bene dove fossi finito. Nessun suono perché forse non aveva neppure frenato, solo la musica che ancora pulsava dall’auricolare nel mio orecchio sinistro. Il destro non lo ricordo più. Credo di non aver provato dolore, solo dentro la schiena come un movimento, come lo schiocco di quando ti scrocchi le dita ma molto più potente. Nella zona lombare e più in su alla radice del collo. L’orecchio destro forse l’ho sentito quando ha toccato la mia spalla sinistra ma credo sia stata più una sensazione che il senso del tatto, più una percezione dovuta alla prospettiva della mia vista che in qualche modo vedeva alle mie spalle e non più di fronte. Non ho provato nessuna sensazione fisica se non questo e poi era come se il mondo fosse rallentato. Nella mia testa tutto quel movimento era durato minuti, forse ore ma infinitamente meno rispetto al tempo trascorso dopo. Come guardarsi dietro e vedere una scia allungata, sempre più veloce man mano che è lontana, sempre più lenta man mano che arriva all’ora. E l’ora è come un tempo immobile. Mi rendo conto solo ora di dove sia collocato questo ora, mi rendo conto solo ora che il tempo dall’altra parte della scia, il tempo davanti è altrettanto immobile. Il tempo in cui dovrei cucinare per Lei è lì davanti, quello in cui lei dovrebbe arrivare infinitamente lontano, il tempo in cui avremmo dovuto fare l’amore infinite volte quell’infinito, e ancora. Il tempo è immobile.
Qui.
Ora.
Il di dentro di me
di Stefano Giolo 10 Settembre 2017
Non è semplice avere un super potere. La parte più difficile è saper controllarlo. Evitare che ti trasformi in un mostro, o che il mostro che hai dentro ti uccida.
Il processo è stato lento, lungo, passo a passo fino a svuotare tutto ciò che era rimasto dentro di me.
La prima parte a morire è stata l’intestino. Dal basso. Era lì che sentivo la tensione la pressione forte e la costrizione dell’ansia, della paura di perdere qualcuno. Era lì che sentivo il desiderio di amarti per quanto la gente parli di cuore. Era lì che bruciavi di più. Volevo dimenticare quello, cessare di provarlo e basta ma a morire fu soprattutto l’ansia. La paura. Cessai di essere capace di provarne. In effetti aveva i suoi lati positivi. Non era il risultato che avrei voluto ottenere ma non avere paure, non avere ansie, aveva il suo lato positivo.
Non era sufficiente perché lo stomaco bruciava.
Non provavo ansia ma era lì dentro lo stomaco che succedeva il resto. Un fuoco. Come un roditore che rode e morde e consuma, come una ruota dentata, mille ruote dentate a girare e rotolare, pezzi di vetro spezzati da ruote dentate dentro lo stomaco a ruotare e accumularsi fino a riempirlo e sputare e vomitare sangue e vetro e sabbia. Ho dovuto uccidere il mio stomaco. Escluderlo da ogni emozione. Escluderne ogni sensazione, strapparlo da dentro di me. Non avrei più sentito la tensione della rabbia, del rimorso, della vergogna.
È stato quello il momento in cui mi sono accorto di non essere più in grado di respirare. Erano i polmoni ad opprimermi, erano i polmoni. Sentivo il freddo, il gelo fermarli, renderli incapaci di muoversi. Non era ansia, quella non la provavo da tempo, ne assenza, ne altro di cui fossi in grado di comprendere il motivo. O forse solamente una parte di tutte queste. Sentivo il rantolo della vita opprimere il mio essere, l’assenza di aria, l’incapacità di respirare e non esisteva luogo o situazione da cui uscire. Ovunque fossi l’oppressione era la stessa. Ogni luogo era un fuori luogo, come un pesce fuori dal’acqua od un uomo che affoga nessuno e nulla era ciò che doveva essere. Decisi di togliere anche i polmoni. Decisi che era l’unica soluzione.
Rimbombava, il cuore. Rimbombava nel vuoto di una cassa toracica divenuta di risonanza. Rimbombava forte perché ti avevo incontrata ancora. Rimbombava come un martello che rintocchi su un gong amplificato da una stanza vuota e piccola fino a farmi esplodere le orecchie, fino a farmi esplodere il cervello rimbombava. Lo sentivo premere nel collo gonfiare le vene, spingere. Ogni volta che nella mia mente tornava a profilarsi il tuo volto, il ricordo del tuo sorriso, del tuo sguardo. Di ciò che mi avevi fatto e di ciò che avresti potuto ancora farmi. Rimbombava come un suono ridondante, come rocce che rotolano giù da un dirupo. Lo spensi. Spensi anche il cuore e lo estrassi.
Rimase il vuoto. Niente altro dentro che il vuoto. Il silenzio.
E il fuoco.
Dentro il fuoco. Come guardare in alto in una grotta e vederne dall’interno le pareti rosse, nere di carne bruciata e piaghe. Il fuoco che non sterilizza, non cauterizza. Asciuga piaghe che vomitano pus e quando si ritira le crea di nuovo e in quella grotta ovunque cade liquido giallo e virulento e sangue che accende ancora quel fuoco che asciuga e brucia e chiude piaghe per aprirne altre ed ancora e ancora e ancora.
Decisi infine che l’unico che doveva essere distrutto era il mio cervello. Schiacciato come a schiacciare una noce quando per aprirla ci si mette troppa energia.
Tutti questi pensieri avrebbero cessato di esistere. Tutti questi ricordi sarebbero scomparsi per niente. Non avrei più pensato al futuro.
La bestia
di Stefano Giolo 22 Agosto 2017
Questo sarà il resoconto fedele di quanto accadde realmente quella notte di tredici anni fa, perché tutto quello che si è detto, le leggende che ne sono nate sulla mia persona non sono più reali di una fiaba per bambini. Non racconterò di quello che già sapete, di come affrontai il mostro e di come lo uccisi se davvero questo è quello che è accaduto, non mi soffermerò su quanto già scritto nei resoconti pubblici che ormai tutti avete letto e riletto, ma solamente su quanto in quei resoconti non è stato scritto. Su quanto non ho mai confessato ad anima viva. Ad anima. Viva.
Perché ora dopo tredici anni scelgo di scriverne? Perché sento che le forze mi stanno abbandonando, che il processo iniziato quel giorno sta arrivando a compimento, perché sappiate che cosa dovrete affrontare quando io me ne sarò andato. Io lo compresi quasi immediatamente, quando dopo essermi pulito di tutto quel sangue, dopo che il mio corpo fu recuperato alla fine di quella battaglia memorabile mi ritrovai a guardare nel piatto che sarebbe stata la mia cena. Quando mi guardai allo specchio e notai i primi impercettibili cambiamenti.
La domanda che mi è stata posta più spesso è certamente come sia stato possibile sopravvivere ad un simile scontro, si dice che nessun essere umano fosse in grado di affrontare la bestia, che non fosse possibile abbatterla con mezzi umani tanto che da quel giorno mi consideraste quasi un semidio o qualcosa di più. La risposta temo fosse che avevate ragione voi. Nessun essere umano ha la forza, il potere, il coraggio, l’arguzia o quello che volete, o meglio l’insieme di tutto questo per avvicinarsi neppure alla bestia. Accanto a lei non esiste altra scelta che soccombere o fuggire. Niente altro. Mi trovai io stesso a scegliere tra le due strade e scelsi la seconda. Fuggii prima di soccombere, o almeno ero convinto di aver fatto questo. Lo so che la delusione in molti di voi vi porterà ad odiarmi per l’immagine che avete creato su di me, per l’aspettativa, ma quando fui abbastanza vicino da vederla in tutta la sua interezza nonostante i mesi spesi nella ricerca, quando la vidi negli occhi fuggii in quella valle oscura, attraversai il ponte e fuggii via. Fu in quel momento che iniziò la battaglia vera e propria quando dall’altra parte del ponte trovai nuovamente quegli occhi a guardarmi. Ero suo. Non mi ero mai chiesto davvero come avrei potuto fermarla, l’impavida gioventù e la certezza in una morte eroica me lo avevano impedito. Non mi era più data la scelta tra fuggire e soccombere, ero stato un vile, un coniglio ma non era bastato a salvarmi. Rimasi immobile mentre invece di mordermi alla giugulare come mi aspettavo prese le mie armi, una ad una e le rivolse verso di me.
“Sono belle, forti” disse. Lo disse con voce suadente, più come un complimento che come un’accusa. “Raramente ho visto armi di tale fattura” aggiunse. Mi mostrò come usarle meglio di quanto avrei mai potuto fare. Meglio di come Cort, il mio maestro, mi avesse mai insegnato. Mi mostrò come avrei potuto usarle per ucciderla e poi le posò a terra. Non ebbi più il coraggio di impugnarle. Sarebbe stato più vile che fuggire, sarebbe stato più debole di morire. Fece l’amore con me. Come non lo avevo mai fatto, come non lo avrei mai più fatto. Mi chiese di usare una delle mie armi su di lei, mi chiese di punirla e ferirla, di farle del male ma non lo feci. Prese lei quell’arma e si tagliò fino a perdere più sangue di quanto credevo possibile e rimase a guardarmi mentre stava per morire. Lasciarla morire sarebbe stato più vile che usare contro di lei le mie armi come mi aveva insegnato a fare. Lasciarla morire sarebbe stato più vile di qualunque altra cosa. La salvai. Ne leccai le ferite perché altro non avevo per pulirne i lembi e li ricucii come lei mi mostrò. Ne bevvi il sangue e la ricucii. La bestia mi sorrise guardandomi ricoperto del suo di dentro, del suo odore ferroso e forte. Ne avevo la bocca, il viso, il collo, l’intero corpo ricoperti. Non so per quanto tempo mi tenne con sé, voi dite poche ore io ricordo secoli. Ricordo di essere invecchiato accanto a lei e morto e rinato e aver vissuto altre vite, ed altre ancora. Voi dite minuti io ricordo millenni di cui ricordo ogni istante e potrei raccontarvi resoconti di intere civiltà morte e sepolte e rinate e fiorite e morte e divenute polvere dalla cui polvere sono nati mondi. Rimasi lì accanto al mostro, alla bestia come se io fossi la regina e lei il re, lei la divinità di interi universi ed io l’umile messia. Persi le forze nel tempo. Invecchiai nei millenni ma era come se fossero durati pochi istanti come se ogni energia di cui ero in grado mi venisse succhiato e mentre invecchiavo io, lei, la bestia, ringiovaniva e diveniva più forte.
Un giorno infine svenni. Privato di ogni energia dopo aver visto nascere e morire l’ultimo degli universi possibili svenni. Quando mi risvegliai ero ancora ricoperto del suo sangue, le mie armi a terra come mi avete ritrovato, il mostro se ne era andato ed io ero divenuto un eroe.
Fu quando potei pulirmi e lavarmi dopo aver dormito non so quanto che osservai il mio volto, la forma dei miei denti, lo sguardo. Era cambiato qualcosa di impercettibile ma mi sentivo diverso. Fu quando mi portaste la cena che il mio sguardo era attratto più dal gocciolio lieve e rosso della carne che da qualunque altra cosa. Mi chiesi per la prima volta cosa sarei diventato.
Mi chiesi per la prima volta davvero come si potesse fermare la bestia.
Me lo sto chiedendo ora. Qui. Mentre vi scrivo.
Non so se riuscirò a fermarla, o se ci riuscirete mai voi.
Sono diventato te. Nel tempo.
di Stefano Giolo 3 Agosto 2017
Sono diventato te. Nel tempo.
Sono diventato te.
Ricordo ancora il primo istante in cui ti ho veduta. Troppo grande ho pensato. Eri grande. Sì. Non avevo idea di quanto, di cosa e in che senso lo fossi. La prima impressione era che tu fossi di età troppo avanzata, troppo grande sì. La seconda era che tu fossi eccessivamente sovrappeso, troppo grande. Mi ci volle poco tempo per capire che dentro ci fosse uno spessore diverso, che non eri come le altre che avevo incontrato, tra giovani si sarebbe detto che eri una grande, troppo grande. Eppure non avevo capito nulla di quello che contenevi. Di quello che c’era dentro come fossi stata un grande contenitore, troppo grande. Non l’avevo capito. Negli anni ho visto molte di queste cose dentro, delle tue parti, dei tuoi pezzi. Eri una specie di enorme puzzle che portava sul proprio corpo i segni di errori e di gioie e di ogni momento. Li portavi con fierezza ed eri in grado di fare cose, di vivere cose, di sopportare cose, di affrontare cose, di insegnare cose, di mostrare cose, di vivere cose, di essere cose. Troppe per la mia piccola mente ristretta, per l’anima rinchiusa che mi ritrovavo. Troppo piccola per contenerti, e te troppo grande.
Solo per questo ho deciso di farti a pezzi.
Ho pensato che scomponendoti avrei potuto riuscire a viverne una alla volta le parti, di affrontarne una ad una le parti con calma e non sarebbero state ognuna troppo grande, non sarebbero state presa una alla volta troppo. Quella sera non te lo saresti mai aspettata. Non ci si vedeva da parecchio, da troppo tempo, un tempo troppo grande per quantificarlo. Non ci si vedeva da tanto.
Avevo ancora le chiavi di casa tua quindi non fu difficile farti questa sorpresa, i tuoi orari erano ancora quelli di un tempo e il gatto in fondo era solo felice di rivedermi dopo tanto. Il gatto o il suo fantasma, non saprei. Ti aspettai sul divano guardando la TV. Non c’era molto da fare di meglio.
Guardavo l’ora. Guardavo qualche puntata della serie TV che avevamo iniziato assieme. Guardavo l’ora. Avresti dovuto entrare a minuti e a minuti arrivasti preannunciandoti con il suono della tua vecchia macchina e con il fascio dei fanali entrati nella piccola corte.
“Cosa ci fai qui tu?” furono le parole esatte con cui mi accogliesti. Il tuo viso era distorto da qualcosa che interpreterei come timore misto a stupore ma era ancora bello come un tempo. Peccato mancasse quel sorriso che tanto ricordavo, quel grande, enorme sorriso troppo grande.
“Cosa ci fai qui?” dissi di nuovo “Hai ancora le chiavi?”
“Sì. Cara.” furono le uniche due parole che dissi. Non credevo ne sarebbero servite altre mentre infilavo nel tuo corpo la lama del tuo coltello di ceramica. Tu dicesti solamente “Oh.” e niente altro. Quella sera anche tu eri di poche parole. Ci stava troppo sangue dentro tutto quel corpo contenitore, non so dire quanti litri ma una quantità che non avrei mai potuto prevedere, fortuna che soffrivi di pressione bassa, eh? Non mi inondasti, il sangue usciva veloce ma non a getti, probabilmente avevo colpito una vena e non un’arteria. Meglio così perché sarebbe stato fastidioso non vedere più per il sangue sulla faccia. Lo shock ti spense in fretta e ti accasciasti quasi schiacciandomi in un’abbraccio. Cercai di ricordare se avevo mai avuto l’occasione di provare ad alzarti di peso ma non me ne ricordai con certezza. Da qualche parte nei cassetti dovevi avere un sega ossi elettrico, te lo avevo visto usare quella volta delle costolette. Ti appoggiai a terra e mi misi a cercarlo. Il sangue continuava ad uscire, rischiava di finire sotto la porta di entrata. I tuoi vicini non erano particolarmente invadenti ma non sarebbe stata comunque un’idea intelligente. Corsi a tamponare con degli stracci e scivolai tutta quella pozzanghera troppo grande. Credo di essere svenuto per una decina di minuti mi risvegliai con i vestiti inzuppati, poi finalmente trovai il sega ossi. Nel freezer giù non ci saresti stata tutta intera ma a pezzi sì, che poi era comunque quello che intendevo fare quindi cominciai a dividerti.
Pezzo per pezzo, funzione per funzione, ricordo per ricordo, istante per istante come una scatola dei ricordi delle cose che abbiamo fatto assieme.
Mi nutrii di questo. Per mesi, per mesi mi nutrii del cibo che potevi fornirmi, mi nutrii di tutto quello che eri stata per me, di quello che avevamo vissuto. Di tutto. Fino a diventare te.
Mi accingo a vivere quello che eri. Ad essere te alle prese con me, a vivere quello che ti ho fatto vivere. Sono diventato te. Nel tempo.
Sono diventato te.
La mia prima volta (Il sangue)
di Stefano Giolo 6 Giugno 2017
<- La mia prima volta
<- La mia prima volta (La vita)
<- La mia prima volta (L’anima)
Ricordo la prima volta come se fosse appena accaduta. I suoi capelli erano lunghi fino quasi a metà schiena castano scuro, lisci e morbidi. Tendevano a stare con la riga in mezzo come li aveva tenuti probabilmente per anni ma la sua mano continuava a scompigliarli dandole un movimento fluido e compatto posizionandoli ogni volta in maniera diversa. Ricordo perfettamente il bianco chiaro del suo corpo, la sua pancia piatta ma morbida di quel lieve strato di adipe che ogni donna dovrebbe avere, ricordo parte di me scivolarle liquida sulla pelle della pancia ed entrare nell’ombelico fino a farlo traboccare e poi scendere di lato accanto all’osso del bacino. Lentamente. Fu quello probabilmente a scatenare il tutto di ciò che avvenne successivamente. Era una sera come un’altra una sera come tante e lei ancora non l’avevo mai incontrata. Credo mi abbiano colpito per prima le labbra imbronciate e poi quei capelli lanciati da un lato all’altro da un braccio bianco e chiaro zeppo di lentiggini. Era triste, seduta su di una panchina al parco, al buio.
“Tutto bene?” le dissi.
“No” rispose.
Niente altro. Mi sedetti accanto a lei e non si spostò.
Il suo profumo era un profumo unisex, non saprei dirne il nome ma lo avevo già sentito altrove, sfiorava i meandri profondi della mia mente.
Restammo seduti uno accanto all’altra per minuti, decine di minuti, forse anche più di un’ora senza rivolgerci la parola poi lei si alzò e si allontanò lentamente.La vidi anche il giorno dopo. La scena fu simile ma non parlammo. Questa volta portava una T-Shirt bianca con una scritta grigia, non ricordo quale, ma mi rimasero impressi i pantaloni slavati e leggermente macchiati. Sembrava avesse deciso di lasciarsi andare. Non parlammo neppure questa volta ma le rimasi accanto. Anche il suo volto aveva delle lentiggini che il buio nascondeva ma quando i fari di un’auto passavano riuscivo a distinguerle leggermente sulla superficie del naso. Lei teneva lo sguardo basso.
Fu la terza sera che le chiesi gentilmente se avesse voluto usufruire dei miei servigi. Indossava ancora gli stessi pantaloni e la maglia che indossava era strappata in basso. Attraverso si vedeva il bianco del suo corpo, lì apparentemente privo di lentiggini. Si alzò dalla panchina e mi diede uno schiaffo fortissimo quando glie lo chiesi, tanto da farmi schizzare sangue dal naso. La vista del mio strumento doveva averle causato un moto di timore ma alla fine non si mosse confermandomi che tutto sommato desiderava quello che le stavo proponendo. Mi alzai a mia volta cercando di fermare il getto di sangue che stavo perdendo e le spinsi le spalle per farla sedere, si lasciò muovere docile e una volta seduta sulla panca la feci sdraiare. Lo stava aspettando quel momento, nonostante lo schiaffo non disse una parola. Quando le tirai su la maglietta fino ad esporle il seno un altro fiotto del mio sangue finì sulla candida carne morbida che avevo esposto, il sangue rosso chiaro scivolò nella fossa del suo ombelico riempiendolo in fretta e colando di lato giusto sopra l’osso del bacino. Mi chinai a leccarlo, a leccare il mio stesso sangue a leccare quella pelle, a sentire il misto tra il metallico e il salato, tra il male ed la purezza.
Lei rimase in silenzio ancora. Mi guardava fremendo leggermente con lo sguardo di un agnellino che attende gli eventi. Reggevo forte nella mano ciò che avrei usato su di lei e lei lo guardava quasi con bramosia. Avrei voluto infilarglielo con forza dentro senza preamboli ma decisi di farlo lentamente, di godere il momento che avrei ricordato per tutta la vita. Lo posai sulla pelle del suo sterno e lo feci andare leggermente avanti ed indietro, lasciava un lieve segno su tutto quel candore poi, ruotandolo, con la lama tagliai la stoffa che univa le due coppe del reggiseno. Lei parve gioire in un istante di ritrovata libertà mentre i suoi seni lanciavano di lato gli scampoli di stoffa rimasti appesi solo alle spalle e dietro la schiena. Osservai quelle morbidezze mentre il sangue dal naso smetteva di scendere poi feci scorrere la lama del mio strumento dallo sterno al pube lentamente premendo a poco a poco di più, quel tanto da segnare la pelle sotto la pressione che la schiacciava verso il basso comprimendola ma non abbastanza da tagliare. Nei suoi occhi vidi per la prima volta la paura, come avesse cambiato idea, come se volesse che mi fermassi. Lo fanno sempre pochi istanti prima del momento, è quello l’istante in cui bisogna agire, il culmine massimo del piacere prima che arrivi il terrore, prima che arrivino le urla. Non lo sapevo ancora in quel momento ma era l’istinto a guidarmi. Razionalmente lo avrei compreso solamente anni dopo. Feci entrare la lama poco al di sotto dello sterno bucando i polmoni ed il cuore. Vidi i suoi occhi e le sue labbra spalancarsi come a provare un orgasmo prima che un fiotto del suo sangue le uscisse dalla bocca scendendo sotto un orecchio. Avrei voluto sanguinare ancora, mescolare il mio sangue al suo, mescolare i miei liquidi ai suoi ma mi limitai a leccare i suoi dall’orecchio, da sotto l’orecchio. Non respirava già più. La lasciai lì, in quel contrasto del rosso e del bianco, con quel segno uscirle dalle labbra come un rossetto sbavato in una serata di passione.
Le avevo donato ciò che desiderava, avevo portato via con me quello di cui desiderava liberarsi e questo mi faceva sentire particolarmente sereno, in pace col mondo. Avevo trovato il mio posto nel mondo, il mio ruolo.
Quella fu la mia prima volta, la prima di tante altre in cui donai i miei servigi a persone che non erano più in grado di scegliere di essere o di non essere, né di sopportare gli oltraggi dell’iniqua fortuna né di prender le armi contro il mare di triboli.
Ero diventato il braccio della vecchia signora.
La porta
di Stefano Giolo 1 Giugno 2017
Ed è ancora quella porta
-maledetta oscura-
che chiudo alle mie spalle una volta ancora.
Era così semplice oltrepassarla un tempo quando non provavo più sentimento alcuno.
Ancora quella porta un tempo introvata passata ancora una volta oltre cui inizia la ricerca in terre desolate.
E nuovamente quella porta, mentre ogni volta mi sento più vecchio
-sono più vecchio-
come si ripetesse da millenni.
E dopo la strada, dopo morti e battaglie ancora.
Ed è ancora quella porta
-maledetta insicura-
chiusa mi sbarra la strada per poi aprirsi a fatica e mostrare nuovi mondi
terre desolate e silenzi e ancora solitudini e fatiche da affrontare fino a raggiungerla
fino a raggiungere quella porta
-rossa oscura-
da abbattere aprire sfondare oltrepassare
e rabbia, e la forza di un guerriero
-stanco, abbattuto-
che lotta per raggiungere infine quella porta oltre cui nuove terre
-desolate, aride, piene di animali marcescenti-
dove affrontare nuove avventure e combattere e finalmente raggiungere
quella porta
-oscura maledetta-
mentre il mondo è andato avanti
l’anima come un telo un tempo bianco ora consunto che si strappa ad una carezza
sporco e secco del fango e della pioggia e del sale del mare
un telo antico con le tracce del sangue e del piscio e del silenzio.
Ma finalmente arrivo alla porta
-rossa maledetta oscura-
abbattendola vedo oltre,
vedo il mio destino,
le terre desolate e lontane e le lotte e lontano una porta
e ancòra. Àncora. Ancòra.
Ancòra àncora quella porta.
Le domande del vivo
di Stefano Giolo 24 Maggio 2017
Ci sto pensando da un po’. Al togliersi la vita, non specificatamente al togliermi la vita. Ne ho scritto un po’ “Una società incapace di comprendere il suicidio e la droga“, ma non come avrei voluto. Recentemente sembra che il suicidio stia diventando particolarmente mainstream, tra la mezza bufala del Blue Whale, 13 Reasons Why che ne da una visione piuttosto romanzata e meno drammatica ma che potrebbe aiutare molti a capirne almeno parte dei meccanismi, il suicidio di Chris Cornell. Un mito della gente della mia età, uno che almeno una volta nella vita avresti voluto essere al suo posto, su quel palco, davanti a migliaia di fan in deliro, un uomo da invidiare.
Non credo sia un male parlarne. Credo che la società dovrebbe essere maggiormente in grado di recepire il suicidio come realtà possibile e comportarsi di conseguenza, non tanto per evitarlo come fatto in sé quanto per evitare che le persone che abbiamo accanto soffrano al punto di arrivare a questa scelta.
Le domande che invece la società si pone finiscono per essere sempre quelle che può fare chi vede le cose da fuori, e le domande del vivo diciamo.
Ci si chiede se sia giusto togliersi la vita lasciando gli altri nel dolore, ci si chiede se ci fosse qualcosa che si sarebbe potuto fare, ci si chiede come si possa uccidersi al cospetto di tanta gente che invece vorrebbe vivere e non può farlo. Si guarda il mondo, come purtroppo naturale, dal punto di vista di chi resta, dal punto di vista di chi non si toglierebbe mai la vita. Si dimentica che esiste questo grande parolone che è depressione, si dimentica che dietro questo parolone ci sono dei significati che il più delle persone non conoscono, non hanno vissuto, non riescono a capire. Un parolone che rivolta completamente il significato del mondo, delle parole, della vita e della morte. Ma anche dire depressione è una semplificazione che ci impedisce spesso di scendere più a fondo. Là dove risiedono le emozioni. Là dove risiedono le cose che ci muovono davvero.
Ci ho provato diverse volte a scriverne come sto facendo ora. Non serve. Non verrebbe compreso. C’è un altro modo che mi appartiene, come scrittore, c’è uno che credo possa essere forse l’unico efficace, vogliatemi scusare se per qualcuno possa essere forte.
Ci ho pensato. Ci ho pensato decine di volte. Centinaia. Probabilmente è tutta la vita che ci penso se di vita si può parlare della mia. Ci penso, ci arrivo vicino, guardo giù dall’orlo e poi qualcosa, per caso, passa a salvarmi. O forse fino ad oggi è stato solo l’istinto di conservazione, sarebbe bastato il vento che ora ho alle spalle per spingermi giù. Quello che mi ha fatto finalmente lanciare. Credevo facesse più paura ma è stato come staccare la mano dal bordo della piscina. Niente più. Dopo anni attaccato al bordo ora ho semplicemente lasciato la mano e me ne sono andato per sempre. Un sollievo. Niente altro. Mi sono sempre chiesto prima di sentire questo vento che cosa avrebbero pensato le persone che sugli spalti di questa piscina sono rimasti a guardarmi, mia madre, mio padre, Luca, Arianna… penso che in realtà non me ne frega nulla perché tra poco io cesserò di esistere e loro per la prima volta si accorgeranno che ero nell’acqua invece che accanto a loro. Sono sempre stato nell’acqua. E glie l’ho sempre fatto notare. Ho fatto di tutto per farglielo notare, ho alternato il mio umore per farlo notare, ho urlato in faccia che stavo male, l’ho fatto in mille modi. Soffriranno sì, ma il mio cuore è talmente freddo, oggi, che non mi importa. Che lo trovo quasi giusto. Il contrappasso. Io ero qui nell’acqua e loro mi davano la mano giusto il tempo di sollevarmi un po’, poi si voltavano a chiacchierare d’altro e a lasciarmi precipitare giù. Non è colpa loro, lo so, sono io che ero sbagliato, sono io che non sono mai riuscito ad esprimermi ed è giusto sia io ad andarmene e la pace che ne deriva, alla deriva, è così dolce che a sparire ogni rabbia, ogni tristezza, ogni risentimento. Si chiederanno se c’è una causa, se ne addosseranno colpe, diranno che è colpa di Arianna che mi ha lasciato. E sbaglieranno tutti. O avranno tutti ragione. Non importa. Questo non lo capiranno. Non capiranno che non importa. Che quando hai lasciato il bordo della piscina non conta più nulla. Potrei pensare alle cause, forse sforzandomi riuscirei a trovarne anche una più importante delle altre ma è un filo. Un filo continuo, un filo che parte dal giorno in cui sono nato e arriva ad oggi. Sono sempre stato qui nell’acqua. Forse ne sono uscito una volta. Forse davvero ne ero uscito una volta, ma quando ci sei stato serve un motivo per non tornarci. Serve un motivo per rimanerne fuori. Non c’era. Le altre volte sì, le altre volte un motivo lo avevo sempre trovato, era sempre arrivato al momento giusto, all’istante giusto. Quando meno te lo aspetti dicono. A volte invece quando meno te lo aspetti le cose non arrivano. Questa volta non è arrivata. E i miei figli? Staranno meglio senza di me. I mie soldi li hanno non avranno il mio peso. Né ora né quando sarò vecchio, né il peso della mia sofferenza. Se ne faranno una ragione. La natura vuole che i padri muoiano prima dei figli, no?
Non serve ve lo spieghi perché mi sono tolto la vita perché nessuno di voi lo capirebbe, o ognuno capirebbe un piccolo angolo, un piccolo morso infinitesimo di un grande quadro che nessuno sarebbe in grado di comprendere. Come essere in piedi su un gigantesco Pollock e cercare di trovarne un senso vedendone un pezzetto parziale. Ognuno la sua piccola colpa, ognuno la sua grande assoluzione del fatto che in fondo se io fossi stato capace sarei riuscito a spiegarmi. Eppure i segnali ho provato a lanciarli. A lanciarne ancora, ed ancora. Quelli che per loro sembravano capricci, stranezze. La verità è che è stata la solitudine ad uccidermi. Non la solitudine di non avere qualcuno con cui uscire, con cui bere due birre, con cui guardare la partita, con cui parlare di politica e di arte e di quale sia l’hamburger più buono o la soubrette più figa. Qualcuno a cui parlare di cosa mi accadesse dentro. La solitudine di sentirsi diverso da chi mi circonda, la solitudine di non avere nulla da condividere, per cui valga la pena lottare per condividere con gli altri. C’era stata lei un tempo. Per lei avrei rovesciato il mondo, per lei avrei svuotato questa piscina e l’avrei riempita di terra e ci avrei coltivato ortaggi e fiori e non avrei mai più permesso si allagasse, e mi avrebbe aiutato, a farlo ed io avrei aiutato con tutta la mia acqua a far fiorire il suo mondo. Ma sono stato incapace di esprimermi e l’ho perduta. L’ho lasciata andare, arrabbiata con me, perché non sono mai riuscito a dirle ti amo. Penserà “ma se avesse detto…”. Sì. Se avessi detto il mio mondo sarebbe cambiato, e il tuo, e forse sarebbe cambiato il mondo di un sacco di altra gente e tutto sarebbe stato magnificamente qualcos’altro. Ma non l’ho fatto. Non l’hai fatto tu, non lo hanno fatto loro. Ma non l’ho fatto io. Non c’è molto altro da aggiungere. Ma non c’è un evento scatenante, non c’è una colpa specifica, non c’è nulla. Solo la mia mano che ha lasciato il bordo della piscina.
E poi silenzio.
E poi pace.
E poi nulla.
La mia prima volta (L’anima)
di Stefano Giolo 14 Aprile 2017
<- La mia prima volta
<- La mia prima volta (La vita)
Ricordo la prima volta come se fosse appena accaduta. I suoi capelli erano mossi, castano chiari, ricordo che a far scattare il tutto fu un ricciolo sbarazzino sulla fronte, si staccava dal resto dei capelli per spingersi fiero verso il centro e risalire. Quel ricciolo aveva attratto la mia attenzione, sembrava richiedere tutta la mia attenzione, sembrava volere che la mia attenzione si concentrasse solo su di lui quasi ignorando il resto della figura che lo portava. Avevo tredici anni ed eravamo a scuola nell’aula magna, non ricordo esattamente per cosa fossimo lì perché la mia attenzione era rivolta altrove. Non avevo idea di chi fosse perché era in un altra classe ma quel ricciolo spavaldo era in qualche modo un simbolo nella mia testa, il simbolo che avrebbe scatenato tutto il resto. Ci avevo già provato in passato in maniera meno concentrata e motivata ma questa volta sarei arrivato fino in fondo anche se non lo sapevo ancora. Non ricordo quanto ci volle per sapere che il nome della ragazzina fosse Chiara e che fosse in terza B. Io se non ricordo male ero in F ma lei, ne sono certo, era in B. Di questo sono sicuro.
Dicono che la prima volta non si scordi mai. Io penso che siano le sensazioni provate a non essere scordate, l’atto in se purtroppo va perduto nei meandri della mente ricoperto dalla ripetizione ad libitum dell’atto stesso. Mi chiedo se lei invece abbia ancora memoria del risultato, visto che durante l’atto non era presente. Le scrissi la mia prima poesia a scuola, durante l’ora di inglese. Non ricordo le parole e mi chiedo se ci siano ancora nel suo diario di allora, se abbia ancora il diario di allora. Come in ogni prima volta però ricordo le emozioni provate. Non scrivevo realmente a lei, ma a quel riccio che ricordo ancora perfettamente più di quanto ricordi il suo viso, scrissi a me stesso mentre parlavo di quel riccio. Non partii con una classica ode a una donna ma con una specie di ode a dei capelli. D’altronde non conoscevo altro di lei.
Ricordo tutto il riempirsi dentro come di una bolla che si gonfia, come un liquido che sale dal basso fino ad allargarmi il torace, a silenziarmi la gola, ad entrarmi in testa e spingere forte. Le persone che mi stanno accanto l’hanno spesso interpretato come se volessi isolarmi ed entrassi in una forma tra autismo e depressione, ognuno ha sempre avuto il proprio modo di interpretarmi in quello stato ma per me è solamente parte del processo. Della mia dipendenza se vogliamo. Una delle tante dipendenze. Ricordo perfettamente la sensazione di estraneazione, di stacco dal mondo, di isolamento non tanto dagli altri quanto da me stesso. Il desiderio che spinge, un desiderio che non avevo idea di da dove venisse né cosa desiderasse né dove e come sfogarlo. Presi in mano la penna, una stilografica blu in plastica gialla tutta mangiucchiata e scrissi a quel riccio, che poi quello che scrivevo arrivasse a Chiara era un fattore secondario. Scrissi di getto ma non so cosa scrissi. Alla fine il mio corpo, la mia anima, la mia mente parvero svuotati. Tutto quel liquido accumulato dentro che schiacciava e premeva su ogni mio organo, pensiero, su ogni parte di ciò che ero allontanandomi da me stesso ed ovattando tutto, era scomparso. Era scomparso con una forma di piacere quasi fisico che avrei imparato più tardi ad assimilare all’orgasmo. Seppure non fosse la prima volta che usassi la vena creativa per scrivere questa fu la mia prima volta, quella in cui ne compresi il potere terapeutico. Pensai che sarebbe stata comunque l’ultima. Cosa mai avrebbe potuto nuovamente scatenarmi una simile sensazione? E cosa avrei potuto scrivere di altrettanto forte? E poi queste cose belle a forza di ripetersi perdono forza, perdono valore ed infine si abbandonano, no?
Ne scrissi altre due o tre credo, sempre al ricciolo di Chiara, consegnandole a Chiara perché il ricciolo potesse leggerle mentre le leggeva lei. Credo di averci fatto una passeggiata e ballato un lento e niente altro. Le promisi che un giorno le avrei fatto capire che per me non era solo un gioco, che non l’avrei dimenticata, e in qualche modo sto mantenendo la promessa anche ora anche se probabilmente non lo saprà mai. Anche se la promessa non era fatta a lei. Ho scritto molto anche sull’incavatura della sua schiena che ho toccato ballando quell’unico lento, Independent Love Song di Scarlet. Ma questo accadde più di quindici anni dopo e ha più a che vedere con il mio modo di scrivere e di pescare nei ricordi che con lei. Come tutto il resto d’altronde.
Scrissi dell’altro nell’anno successivo e probabilmente quello dopo ancora. Mi ero illuso che quella sensazione potesse tornare e mi convinsi che il problema fosse non tanto nello scrivere quanto nell’amare. Non ero in grado di provare quello che avevo provato per lei. Per il ricciolo praticamente. Fu quando incontrai il mio primo amore, amore vero, che mi accorsi che il mio scrivere aveva poco a che fare con il mio amare gli umani e che quando mi chiese “Ti è piaciuto?” risposi “Sì, è quasi come scrivere.”
Avevo ripreso a farlo da poco. I cambi, le rivoluzioni, le stranezze dell’adolescenza e degli ormoni stavano facendomi impazzire, ero un adolescente atipico in un mondo tipizzato, dovevo essere ciò che ero mascherandomi da metallaro, o da bravo ragazzo, o da musicista jazz, o da latin lover, o da timidino. Ero già consapevole di chi volevo essere ma la società non era in grado di accettare che lo fossi quindi dovevo raccontarmi a me stesso per avere la mia direzione. Scrivevo. Scrivevo sopratutto a me stesso. Scrivevo rinchiuso nella mia stanza. Quando tutto si riempiva di quel liquido soffocante che mi obbligava a farlo lo facevo e ogni volta mi dava piacere uscendo da me attraverso la penna. Ero praticamente rinchiuso in me, tra me, con me, all’interno di me. Iniziai a portarmi dietro un Moleskine, non perché lo avessero fatto Oscar Wilde o Ernest Hemingway ma semplicemente perché era comodo. Potevo scriverci per diminuire il liquido dentro e arrivare fino al momento in cui avrei potuto isolarmi e buttarlo fuori del tutto. Scrivevo sull’autobus, per strada, nei locali davanti ad una birra, nelle pause durante gli allenamenti. Scrivevo. Scrivevo delle cose che può scrivere un adolescente e di qualche altra. Non pensavo sarebbe durato a lungo. Finii di scrivere il mio primo libro nel giro di pochi mesi, era una raccolta di poesie, o quantomeno di pensieri. Aveva un inizio, uno svolgimento ed una conclusione come un romanzo, una storia organica e precisa di crescita. Pensavo non avrei mai più scritto altro. Conoscevo Rimbaud e mi piaceva l’idea di chiudere con la scrittura come aveva fatto lui, il poeta dell’adolescenza. Avevo scartato moltissime poesie che ritenevo buone, alcune ottime. Poesie sulla morte, sul senso della vita, sulle contraddizioni del mondo, poesie troppo sperimentali ma interessanti. Fu in quei giorni che tirai fuori dall’armadio il cappotto di pelle che avevo messo via la stagione precedente, infilandoci una mano in tasca ne trovai una pallina di carta. La aprii e dentro vi trovai scritto “Rievocazione dei sensi”, lo avevo scritto quasi un anno prima in una sera in cui avevo voglia di isolarmi dal mondo. I miei amici avevano preso l’autobus ed erano in centro ad aspettarmi, io avevo deciso di perdere l’autobus e di farmela a piedi anche se in venti minuti sarebbe arrivato il successivo. Attorno c’era nebbia, probabilmente era un novembre o un marzo, un giorno di mezza stagione. Camminavo come ho sempre amato fare nelle parti vietate della zona merci della stazione dei treni. Mi era venuta in mente solo quella frase, avevo una penna, un foglietto ma non il Moleskine. L’avevo scritta e messa in tasca. Poi tra una cosa e l’altra avevo finito per appallottolarla e ritrovarla mesi dopo. Fu una frase profetica e una rivelazione. Iniziò a prendere corpo quello che sarebbe stato il mio secondo libro iniziato, anche se ci misi anni a terminarlo, e fu probabilmente il mio quarto finito. Iniziò a prendere corpo Contrapposizioni, tra giochi e sperimentazioni e temi alternativi. Senza fretta. Senza volerlo realmente terminare era il coperchio sotto cui poteva stare molto del materiale che avevo scartato in precedenza. Ero convinto non lo avrei mai terminato, e avrei smesso preso di scrivere come Rimbaud, ma ero lontano dai diciannove anni.
Il secondo libro lo scrissi di botto, in poche settimane dopo aver chiuso con il primo amore ed averne incontrato un’altro fuggevole ma estremamente provante dal punto di vista personale. Una persona più strana di me, più complicata di me, più estrema di me con cui confrontarsi e chiedermi chi fossi fino al nostro esplodere in una favilla luminosa. Cominciavo a pensare che forse dopo tutto avrei potuto continuare a scrivere un altro po’. Ma presi una pausa. Così, perché amo contraddirmi.
Sembrava non esserci più nulla da scrivere, si era esaurito il filone e forse mi andava bene così. Scrissi un po’ usando la tecnica e non la passione, scrissi altri pezzi di Contrapposizioni fino quasi a completarlo riempiendolo di esperimenti, giochi di parole, tecnica talvolta fredda. Poi come per ogni droga, per ogni dipendenza, per ogni fuga incontrai qualcuno che mi diede una scossa, che mi lanciò nel baratro o me ne estrasse. Che mi fece capire cos’è la dipendenza. Che mi fece capire cos’è la depressione. Che mi fece capire cos’è la vita. La prima volta che capii come sarebbe andata a finire fu sul suo letto quando iniziò a leggermi Prevert. Non avevo mai letto Prevert. Parlammo ore di poesia, giorni, mesi. Mi accorsi di come le sperimentazioni che avessi provato non fossero davvero così inutili, leggendole lei mi mise in mano Pessoa. Non avevo mai letto Pessoa e fu una rivoluzione. Ricordai come all’inizio la spinta fossero le poesie di Edgar Poe ma capii come ambissi involontariamente, pur non conoscendolo a Pessoa. Ne lessi la prosa e capii che come il mondo fosse più ampio. Fu lei che mi portò a terminare Contrapposizioni, a spingermi fino a farmelo pubblicare. Oggi lo rileggo e nel suo piccolo lo trovo ancora rivoluzionario. Trovo che sia ancora la cosa più bella che io sia mai riuscito a creare. Può non piacere, è ovvio, ma la portata che ha per me, la profeticità dei contenuti per me sono come se il me giovane avesse scritto al me di oggi cose che potrà capire solo il me di domani. Di tutta la mia produzione è stato fino ad oggi l’apice. Scrissi in quel tempo anche un’altra raccolta di poesie, ed un’altra ancora. Dalla prima all’ultima, ad eccezione del solito Contrapposizioni, che prometto non nominerò più, sono stati un percorso collegato, da una fine all’inizio successivo, da una fine al successivo ed ancora. Ne scrissi cinque con pause più o meno lunghe. Il cammino di un adolescente che cercava di crescere, di superare le paure, di lanciarsi da una rupe convinto di poter volare, di cadere ed infine di riprendersi. Arrivai a schifarmi di quello che scrivevo. A non voler più quella fuga, avrei voluto qualcosa di più, di più forte. Ero dipendente ma l’assuefazione aveva fatto il suo corso dopo più di seicento pezzi scritti e catalogati. Qualunque cosa provassi a scrivere mi risultava vuota, già scritta, già vista, inutile. Cominciai a cercare emozioni di altro genere. Di molti altri generi. E poi ancora una volta incontrai l’amore. Un amore strano e complicato seppure semplice. All’epoca avevo spostato il mio scrivere alla creazione di questo blog. Ci scrivevo già da qualche anno a dire il vero e scriverlo era stato probabilmente il motore per far nascere questo nuovo amore che quietò apparentemente il mio bisogno. Si spense il blog, si spense tutto. Fu il motivo per cui smisi di scrivere. Nel bene e nel male.
Scrivere aveva preso a farmi schifo. Se provavo a scrivere e mi leggevo mi sentivo come un alcolizzato che si renda conto di essersi ubriacato contro il proprio volere l’ennesima volta. E tutto ciò che scrivevo mi dava il voltastomaco, era inutile, ripetitivo, vuoto. Il liquido che mi si formava dentro era stagnante e puzzolente. Si formava ma liberarlo dava prevalentemente olezzo. Ogni tanto pensavo a quel ricciolo di tanti anni prima, e mi dicevo che forse avevo finalmente raggiunto i diciannove anni di Rimbaud. Ne avevo trenta, ma era uguale. Non provavo più l’orgasmo dello scrivere ma sentivo ogni istante me stesso pieno di quel liquido che mi estraniava da me e dal mondo ma ero incapace di svuotarmene, privo del desiderio di svuotarmene. Mi stavo allontanando da tutto. Anestetizzato, arido, lontano. Poi l’amore finì, come era naturale che fosse, e con esso in qualche modo l’embargo che mi ero imposto. Non che fosse merito della fine dell’amore ma semplicemente fu un cambiamento abbastanza importante da impormi di riprendere in mano le cose.
Provai a scrivere nuovamente in poesia schifandomi ancora come sempre e allora decisi di scrivere un romanzo. Avevo scritto racconti negli anni, avevo provato a scrivere racconti lunghi ma non mi era mai riuscito di superare poche pagine. Decisi di scrivere un romanzo su di me, per me, da tenere per me. Una forma di auto analisi. Lo scrissi in pochi mesi, era breve e non saprei dire neppure quanto bene fosse scritto ma dopo essere stato mesi a scrivere rinchiuso in casa avevo ritrovato me stesso. Il desiderio, la voglia di buttare fuori tutto, il contatto con il mondo e la realtà. Ed avevo goduto un universo intero. L’anestesia non era terminata però. L’aridità. Il distacco dal mondo. L’incapacità di provare emozioni positive o negative che fossero. L’apatia. Trovai il modo di emulare le emozioni, di viverle apparentemente, di simularle, di stimolare i ricordi per indurle. Era scriverle, scriverne. Per evocarle, per esorcizzarle, per vivere. Non molto diverso da alcune droghe o dell’autolesionismo era diventato il mio modo di provare qualcosa, qualunque cosa fosse pur di sentire di essere in vita.
Quello è stato il momento in cui il blog è rinato con dodici gradi e con gli altri racconti che da allora mi accompagnano e hanno sostituito le sensazioni di cui un tempo avevo bisogno continuando ad alimentare la mia dipendenza e svuotare il mio dentro dal liquido che lo invade. Ho scritto un altro libro, di racconti da allora o meglio due libri concentrici. Il titolo del progetto nella mia testa era Anestesia ma sarebbe stato stupido fosse il titolo reale perché era costruito esattamente sul percorso e le sensazioni consce ed inconsce di un’anestesia totale, e dell’anestesia che stavo provando. Avrei rovinato al lettore (me stesso) il viaggio. Poi come sempre è quando hai bisogno di qualcosa di più forte che incontri qualcuno in grado di dartene. Ho incontrato la persona più importante degli ultimi anni per la mia dipendenza. Mi ha preso per mano e guardato negli occhi dicendo solo io credo in te. Se un giorno i frutti di quello che ho fatto in questi anni si vedranno il merito sarà più suo che di tutta la fatica fatta -che poi non è fatica- in questi anni. Mi ha guardato negli occhi mentre il liquido mi riempiva e isolava dal mondo e mi ha infilato nella pancia un coltello per aprire una breccia e farlo uscire. Il piacere che ne ho ricevuto, in ogni senso, in ogni modo è stato il più sconfinato e dura ancora ogni giorno anche se non ci credo. Ed ancora ogni volta mi sembra l’ultima. Costringendomi ad iscrivermi alla scuola palomar che avevo scoperto per caso mi ha messo davanti al fatto che era il momento di provare davvero a seguire un sogno. Ho scritto il mio primo romanzo completo, completo di ogni punto fondamentale. Migliorabile, sicuramente, ma ho superato il mio limite di non riuscire a scrivere più di un racconto lungo. Quel che ne sarà è da vedersi ma oggi scrivo ancora, mi riempio di quel liquido dal mondo e lo butto fuori. Scrivo su questo blog o altrove ed ogni singola volta mi sembra l’ultima. O la prima. Guardo ciò che ho scritto e mi chiedo come farà a venirmi in mente qualcosa di nuovo fino alla volta successiva ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora. Non so quanto durerà. Se mi fermerò di nuovo infine, ma scrivo ancora ed è ancora tra tutte l’emozione più grande, il piacere più forte.
Creare mondi. O raccontare mondi che esistono davvero ma altrove, in luoghi che gli altri non possono visitare ma tu sì.
Non so quanto durerà. Se mi fermerò di nuovo infine.
Non importa.
- Post Scriptum: Solo dopo aver scritto tutto questo il caso mi ha portato ad un’intervista dello scrittore che stimo di più e che ha segnato maggiormente la mia fantasia. Cercavo su internet “Dipendenza da scrittura” per trovare un’immagine interessante da allegare e come a volte capita è piovuto qualcosa.
Mi ricordo quando ero uno studente che scriveva storie e romanzi, alcuni dei quali furono poi pubblicati, altri no. Era come se la mia testa stesse per esplodere, talmente tante cose volevo scrivere in una volta. Avevo un sacco di idee, tutte intasate. Come se avessero bisogno di chiedere il permesso per uscire. C’era questa falda acquifera sotterranea di storie che volevo raccontare e dovevo solo conficcarvi una tubatura per far sì che tutto fiottasse fuori.I can remember as a college student writing stories and novels, some of which ended up getting published and some that didn’t. It was like my head was going to burst – there were so many things I wanted to write all at once. I had so many ideas, jammed up. It was like they just needed permission to come out. I had this huge aquifer underneath of stories that I wanted to tell and I stuck a pipe down in there and everything just gushed out.
Fuga dal mondo. Parte 3
di Stefano Giolo 7 Aprile 2017
<-Fuga dal mondo. Parte 1
<-Fuga dal mondo. Parte 2
L’uomo gigantesco indossava degli enormi pantaloni di stoffa marroni, a guardare bene era una salopette enorme e marrone. Gli scarponi al bambino sembravano essere due grosse barche piene di terra. Oltre alla salopette il gigante indossava una camicia a scacchi rossa ed aveva una folta barba nera e unta, e dei capelli altrettanto unti.
“Cosa ci fai qui?” disse con voce baritonale.
Il bambino rimase a guardarlo in silenzio fino a quando il gigante lo prese per un orecchio e lo trascinò lontano fino ad un capanno.
“Dov’è la tua mamma? Dovremo di certo avvisarla!” disse l’orco.
“No, la prego signore, la prego! Non dica niente alla mia mamma, si arrabbierebbe moltissimo se lo sapesse, e non dica neppure nulla alla maestra!”
“La maestra? Quale di maestra parli?”
“Quella della scuola, la scuola che c’è di là della rete. Io vengo da lì, la prego mi riporti alla rete non le darò fastidio e farò come se non fosse successo niente. La prego!”
“Di quale scuola parli? Non c’è alcuna scuola qui vicino, siamo nel bosco” disse.
“Nel bosco? Ma no guardi signore, al di là della rete c’è la mia scuola, controlli!”
L’orco indicò al bimbo la finestra ed il bimbo osservò fuori la valle che si vedeva al di sotto. Un fiume scorreva lento e placido verso una pianura lontana e poco distante un enorme cane nero lo osservava con aria aggressiva.
“Ma… ” disse il bimbo “Non capisco.”
“Non capisci che cosa bambino? Io non capisco perché tu ti sia spinto fino a qui, nel mio bosco e sia venuto a disturbare Lupo.”
“Lupo?”
“Lupo. Sì. Il mio lupo da guardia.”
“Ma non è un lupo.” disse il bimbo.
“Sei venuto qui anche per contraddirmi ora? Non ti è bastato infastidirmi?”
La mia prima volta (La vita)
di Stefano Giolo 30 Marzo 2017
Quando Marco mi fece provare non sembrava nulla di che. Alla fine lo facevano tutti, o almeno lo facevano le persone che io ritenevo le più intelligenti, le più sensibili, quelle di cui preferivo circondarmi. Ero un ragazzo, eravamo tutti ragazzi e sembrava una cosa figa.
Provi. Tanto hai tutta la vita davanti, anzi ai tuoi piedi. Perché a quell’età non hai idea di cosa sia la vita ne davanti ne dietro, sai cos’è l’oggi, l’adesso. Il domani tuttalpiù è il tempo che ti separa tra l’adesso e un evento interessante. Non sapevo ancora che un giorno sarebbe diventato un mondo di possibilità, di scelte, di fatica, fino a quel giorno non esisteva, e basta.
Il gioco è stato divertente, quando me lo ha proposte mi sono chiesto “cosa succede se provo? Cosa se non provo?”. L’unica risposta che mi sono dato è che se non lo avessi fatto sarei stato uno sfigato, che Marco non mi avrebbe considerato all’altezza. E così l’ho fatto.
Sapevo perfettamente non fosse una cosa di quelle cose che fanno i bravi ragazzi ma non avevo mai ambito ad esserlo, sinceramente non mi piacevano le categorizzazioni, quindi neppure questa. Ero consapevole che proprio il mio essere intelligente ed attento mi rendeva in grado di controllare la situazione e di non rischiare troppo tutto quello che i grandi dicevano fosse pericoloso o senza via di ritorno. Non sono mai stato una persona da festoni e casino ma questa esperienza mi univa comunque di più al piccolo gruppo di amici, non farlo me ne avrebbe probabilmente allontanato, tanto valeva provare. Non ne rimanei particolarmente colpito, non che facesse schifo o che fosse privo di effetti ma nella mia breve vita avevo provato vari generi di emozione, questo era uno dei tanti. Andrea invece lo trovava entusiasmante, la cosa più bella che mai avesse provato nella sua vita diceva, Marco stesso che ne era il promotore era rimasto stupito dalla reazione di Andrea.
All’epoca facevo atletica leggera, avevo iniziato qualche anno prima ed avevo fatto qualche garetta amatoriale, nei primi anni l’allenatore mi aveva fatto fare un po’ di tutto, lancio della pallina, velocità, salto in lungo, salto in alto. Io adoravo il salto in lungo anche se ero un po’ scarsino. Il calcio non mi piaceva e gli sport di gruppo non erano il mio forte. Forse per il fatto che portavo gli occhiali e quindi non ci vedevo benissimo o più probabilmente per attitudine, sono sempre stato un po’ un solitario. Uno di quei giorni l’allenatore mi chiese di partecipare ad una gara per il fine settimana. Non mi disse la specialità e io non ci feci caso. Avrei dovuto aspettarmelo che mi avrebbe giocato uno scherzo ma non ci pensai. Era inverno e la gara sarebbe stata una indoor, c’era una piccola pista al coperto che veniva montata in fiera ricordo che il numero del padiglione fosse il 18 prima che li rinumerassero tutti. La pista era di gomma su una struttura di legno, era lì che ci allenavamo ed era lì che si sarebbe svolta la gara, non era la prima che facevo. Quando arrivai chiesi quale fosse la specialità e l’allenatore rispose corsa ad ostacoli.
“Non l’ho mai fatta!” dissi.
“C’è sempre una prima volta” mi rispose.
“E se non riesco? E se inciampo e mi faccio male? E se…”
“Ce la farai” disse.
“Ma non mi ci sono mai allenato!”
“Ce la farai” ripeté nuovamente.
Dentro di me scattò qualcosa di nuovo. Un misto di paura, quasi terrore e di sfida. Un misto di non posso farcela e di devo farcela. C’è sempre una prima volta aveva detto, c’è sempre una prima volta.
Ricordo i blocchi di partenza, da quel punto gli ostacoli sembravano un lungo corridoio. Guardandoli dal basso tutti quei rettangoli uno dentro all’altro sembravano un tunnel. Avrei dovuto passarci sopra, ovvio, ma trovai affascinante l’idea. Alla fine della pista, lunga solo una sessantina di metri, c’era la salita che ero abituato a fare in curva. Nelle piste indoor spesso la pista tonda è di soli duecento metri invece dei classici quattrocento e le curve sono rialzate ed inclinate per permettere agli atleti di girare con un raggio così stretto. La pista degli ostacoli si trova al centro di questo cerchio, posta in maniera longitudinale e termina su quella che è la curva. Guardare tutto questo da quel punto è stata una delle emozioni più grandi che avessi mai provato. Ricordo il vuoto ed il silenzio assoluto tra le parole
“Ai vostri posti”.
“Pronti”
Il tempo si era fermato mentre il giudice poco distante da me alzava la pistola.
Poi finalmente lo sparo.
Non ho idea di come sia andata la gara, sicuramente non sono arrivato primo e neppure ultimo, ma era la sensazione dell’energia che mi spingeva oltre ogni ostacolo, il sentire l’odore della pista, il vedere il tempo rallentato passo per passo, passo per passo, l’ostacolo avvicinarsi e passare dietro.
La sera stessa volevo raccontarlo ai miei amici, era la sensazione più bella che avessi mai provato. Andrea invece era più spento del solito, voleva andare al parchetto anche questa volta, io ci sarei anche andato ma non a fare quello che voleva fare lui, ci sarei andato a chiacchierare e raccontare, ma ancora più volentieri sarei andato a fare un giro in centro in mezzo alla gente, bere qualcosina e poi are gli scemi in piazza Dante. O al cinema per dire. Lui voleva viaggiare invece.
Non ho mai capito perché trovasse il suo viaggiare così importante, fondamentale. Nel tempo lo vidi allontanarsi sempre di più, non era facile tenerlo vicino, non era facile cercare di fargli capire che anche andare al cinema a vedere un bel film poteva essere un viaggio, non che i suoi fossero brutti ma vedevo il mondo come una quantità enorme di esperienze diverse da provare. Potevo anche comprendere che la mia amata corsa ad ostacoli non fregasse niente a nessuno, non obbligavo tutti ad amarla dicendo che chi non la capisce non capisce come funziona il mondo.
Nessuno di noi ha mai demonizzato necessariamente dividersi tra divertimenti classici e divertimenti in stile Andrea, ma ci sembrava stupido dover rinchiudere tutto nel trovare un modo di fuggire dalla realtà. Fuggire, viaggiare, ha un suo perché, un suo fascino ma anche la realtà ha un suo perché.
Nel tempo tutti noi abbiamo smesso. Io anche per la questione che per gareggiare dovevo mantenere il mio corpo e la mia testa pulite, non sono mai diventato un campione ma ci credevo davvero. Così alla fine alcuni di noi si sono persi, altri si sono tenuti in contatto. Qualche volta ho ancora incontrato Andrea, non è mai sembrato essere cresciuto, si vestiva ancora come un adolescente era semplicemente invecchiato nelle stesse vesti. Un adolescente invecchiato. Dimostrava realmente parecchi anni di più di quanti ne avesse tra l’altro. L’ho rivisto ieri al supermercato con suo padre, sembravano entrambi molto stanchi, lui in particolare stentava quasi a farsi capire biascicando le parole. Mi chiedo se mi abbia riconosciuto davvero o se abbia finto di ricordarsi.
Non so cosa abbia vissuto da quando ci siamo allontanati, come sia andata la sua vita fino ad ora né come proseguirà, penso solo che forse sia stato semplicemente meno fortunato di me, che avrei potuto essere io al suo posto.
La realtà è che non lo saprò mai.
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Chiudere gli occhi
di Stefano Giolo 26 Marzo 2017
L’ho sempre fatto. Quando sono stanco, quando nella testa le cose non mi ci stanno più e devo lasciare che decantino, chiudo gli occhi. Ormai è un riflesso incondizionato che credo di portarmi dietro fino da quando ero un bambino. Non è solo riposare gli occhi si tratta proprio di non farci entrare più dentro le cose, la luce, le persone, i luoghi e lasciare per un po’ che i pensieri e tutte le cose che già ci sono entrate si riposino, un po’ come aspettare a versare in un imbuto e guardare l’acqua che ruota nel gorgo e scende. Quel tanto da lasciare che ci sia altro spazio. Allora posso riaprirli. Il meccanismo è talmente consolidato che ha dei suoi automatismi e dei suoi riti. Se la luce è troppa devo necessariamente posare la parte rigonfia ed esposta dell’attaccatura dei pollici alla mano sugli occhi e strofinare, li sento secchi e resto immobile così per qualche secondo. Se invece sto camminando in genere prendo un riferimento a terra, la linea delle mattonelle ad esempio e continuo a camminare con gli occhi chiusi. Poi li riapro e guardo se sono rimasto a camminare in linea retta o no. In genere ci riesco e poi mi chiedo se qualcuno che mi veda da fuori si accorga o meno, se facendolo io barcolli o sembri camminare normalmente. Spesso mi succede in auto, quando sono passeggero, e le persone parlano a voce alta di cose inutili e che non mi interessano ma che non riesco a scodare abbastanza in fretta da ignorare. Le cose dette entrano dalle orecchie nella gran parte delle persone ma nel mio caso chiudere gli occhi equivale comunque a staccare dal mondo, come se fosse la luce, l’immagine a fissare le parole nella testa.
Oggi le cose da pensare venivano da dentro, dai ricordi, dalle stronzate dette da qualcuno, dalle scelte. Oggi chiudere gli occhi era necessario perché le cose non entrassero più ma anche perché l’imbuto si svuotasse sia dal basso che dall’alto lasciando travasare tutto purché qualcuno smettesse di versare ancora. Un buon amico mi ha chiesto di uscire, sapeva di non potermi svuotare la testa ma sapeva anche che a volte urlare le cose, in faccia a qualcuno è meglio che tenersele dentro. Un buon amico queste cose le sa, le percepisce. Sa che è utile anche solo a rimetterle in ordine e guardarle una ad una. Mi ha dato appuntamento al Dubliners. Non ci andavo da… dall’ultima volta. Lo ricordo perfettamente da quanto, 76 giorni. Circa. Giorno più giorno meno. La chiamata ricevuta quel giorno, gli eventi precipitati. Tutto.
Ho chiuso gli occhi.
Li ho chiusi mentre Gazzè cantava la sua Comunque vada. Dalle casse stavano uscendo le sue parole Scappa via scappa via cosa mai sarà/scappa via scappa via non tornerà/Ma resto chiuso e un’amica si frantuma/in un istante un grido svaniscono parole quasi mute/immagini sfinite e il sogno delle sue bugie/marcite intorno alla mia stanza/Curiosità lontana torna fra i pensieri/come giovani farfalle provano le ali/sconnetto me da tutto e tutti si sconnettono.
Sessantaquattro secondi. Sessantaquattro prima che la sua voce e quelle note venissero coperte da un frastuono improvviso. Li ho tenuti chiusi gli occhi. Sarebbe stato comunque tardi per cambiare il tempo ed avevo già compreso cosa stesse accadendo. Prima che il caldo della pelle colpita dall’airbag mi inondasse il volto ed il rumore dentro la testa della cartilagine del naso spiccasse tra il resto dei suoni prima del silenzio.
Non aveva più senso aprire gli occhi a quel punto.
Lasciai defluire tutto.
Lasciai defluire.
Tutto.
Fuga dal mondo. Parte 2
di Stefano Giolo 22 Marzo 2017
Fu quello il momento in cui sentì il cane. Non lo sentì arrivare, non stava abbaiando. Stava ancora osservando la bambina dall’altra parte della rete, dall’altra parte del giardino, dall’altra parte del mondo, in un altro mondo. Il cane lo sentì sulla caviglia, sentì prima l’alito caldo poi il naso umido che risaliva la gamba sulla stoffa della tuta grigia. Aveva il terrore dei cani e se avesse anche solo immaginato che al di là della rete, al di qua ormai, ce ne fosse stato uno non si sarebbe mai avventurato. Sentì il naso del cane risalire fino alla propria vita, doveva essere davvero grande. Il terrore lo attanagliò. Non aveva preso in considerazione questa eventualità e non aveva idea di come comportarsi. Eppure non aveva sempre saputo che dall’altra parte ci fosse un cane? O erano più di uno? I grandi dicevano sempre di stare fermo. Se stai fermo il cane resta tranquillo. I cani sentono la paura. Sentono se hai paura. Dicevano anche questo però. I cani sentono la paura. Quanto tempo sarebbe dovuto rimanere immobile? Abbastanza perché le mastre si accorgessero che era scappato vanificando tutto? Abbastanza che il cane decidesse che la paura c’era e quindi valeva la pena assaggiare un pezzo di bambino impaurito? Sentì il muso del cane tastargli prima il sedere e poi infilarsi al di sotto della felpa. Il naso era caldo. Umido, quando il cane respirava il bambino sentiva il vapore scaldare la pelle. Si mise a correre a perdifiato, a correre lontano verso la direzione opposta alla scuola. Non aveva idea se il cane lo stesse seguendo, se lo stava facendo lo stava facendo in silenzio. Lo capì quando sentì poco dietro la caviglia il suono secco di fauci che si chiudono, e solo dopo un ringhio breve e un abbaio.
Un ringhio breve ed un abbaio. Trovò il coraggio di guardarsi alle spalle ed il cane meno grande di quanto gli fosse sembrato correva alle sue spalle. Un cane di una razza indefinibile dal pelo mediamente lungo e nero brizzolato. Correva con la lingua fuori dalla bocca quasi a penzoloni a pochi centimetri dalle gambe. Doveva guardare avanti per non inciampare ma doveva guardarsi dietro per non farsi raggiungere. Vide le fauci stringersi e mancarlo e po impattò contro qualcosa di morbido.
“Ehi ragazzino, che ci fai qui?” disse la voce di un uomo gigantesco. Non che fosse gigantesco davvero ma rispetto al bambino lo era. Lo aveva preso in braccio ed il cane dal basso saltava e abbaiava. Saltava e abbaiava.
“Che ci fai qui?” ripeté la voce. Non era cordiale. Non era per nulla cordiale.
La mia prima volta
di Stefano Giolo 14 Marzo 2017
La prima volta che lo feci non sembrava nulla di che. Alla fine lo facevano tutti, o almeno lo facevano le persone che io ritenevo le più intelligenti, le più sensibili, quelle di cui preferivo circondarmi. Ero un ragazzo, eravamo tutti ragazzi e sembrava una cosa figa.
Provi. Tanto hai tutta la vita davanti, anzi ai tuoi piedi. Perché a quell’età non hai idea di cosa sia la vita ne davanti ne dietro, sai cos’è l’oggi, l’adesso. Il domani è tuttalpiù il tempo che ti separa tra l’adesso e un evento interessante. Non sapevo che un giorno sarebbe diventato il tempo che mi separava tra l’ultima volta e la prossima, niente altro.
Il gioco è stato divertente, me lo ha proposto Marco e mi sono chiesto “cosa succede se provo? Cosa se non provo?”. L’unica risposta che mi sono dato è che se non lo avessi fatto sarei stato uno sfigato, che Marco non mi avrebbe considerato all’altezza. E così l’ho fatto.
Ero consapevole che non fosse una cosa di quelle che si dicono cose buone ma avevo la testa sulle spalle ed ero perfettamente in grado di controllarmi. Proprio il mio essere più sensibile della media, il mio guardare dentro le persone e capirle, era la cosa che mi rendeva più forte ed in grado di controllare me stesso in ogni situazione. Non ero una persona molto socievole, anzi lo ero, ma i miei spazi interiori erano fondamentali, ricavarmi momenti per rimanere da solo e per riflettere, per isolarmi dal chiasso del mondo. Le prime volte lo facevo con gli altri, non l’isolarmi ovviamente, lo facevo con gli altri perché era un modo di fare gruppo, di essere gruppo, di appartenere a qualcosa. Poi mi resi conto che forse in qualche modo stavo un po’ esagerando. Gli amici me lo fecero notare. “Cos’è? Non ti sai divertire senza? Ultimamente sembri strano, va tutto bene? Anche sta sera? E se andassimo al cinema invece?” la cosa mi dava fastidio perché mi faceva vedere un po’ più debole ai loro occhi. Mi dava fastidio anche perché non mi va di parlare troppo di me se non ho voglia di farlo io. Ne parlo quando decido e non mi piace ricevere troppe domande insistenti. Iniziai a farlo nei momenti di solitudine. Era consolatorio, mi aiutava ad aprire maggiormente la mente, ad essere maggiormente in comunione con me stesso e con il mondo. In fondo il mondo non era in grado di comprendere le cose che avevo dentro e questo mi aiutava a far maggiormente coscienza all’interno di me. Qualunque cosa volesse dire. Poi quando fai cose incontri sempre prima o poi persone che fanno le stesse cose. Alla fine anche nella solitudine l’uomo è un animale sociale. Frequentavo ancora i miei vecchi amici ma tra quelli nuovi qualcuno mi conosceva meglio, o quantomeno conosceva meglio il mondo interiore che mi ero creato perché era lo stesso che si era creato lui. Imparai cose nuove, nuove esperienze da provare, mi sembrò di ritrovare me stesso in queste esperienze, di avere finalmente un obbiettivo ed un motivo di vita. Mi sentivo rinascere perché dentro queste esperienze tutto il brutto del mondo scompariva e mi ritrovavo con la parte più vera di me in una continua spirale tra riflessione e urla di piacere, tra distorsione della realtà e realtà più vive di quelle che avessi mai provato. Credo sia stato il periodo più bello della mia vita, il più spensierato. I miei vecchi amici continuavano a chiedermi cose, non ricordo neppure cosa ma non mi importava, erano di certo cose inutili, quasi tutti avevano smesso ed io non trovavo molto da condividere con loro. I nuovi invece mi insegnavano la vita. Correvo. Correvo e ridevo. E viaggiavo. Qualunque cosa intendessi per viaggiare viaggiavo. Fu crescendo che mio padre si accorse che qualcosa non andava bene. Secondo i suoi canoni intendo, perché dal mio punto di vista andava tutto alla grande. I soldi che prendevo in prestito da lui erano troppi diceva. Io non gli avevo mai detto che li stavo prendendo, e neppure quanti fossero. Fece in modo di non farmeli più trovare ed il periodo più bello della mia vita si trasformò lentamente in qualcos’altro. I primi tempi i miei nuovi amici mi supportavano e mi davano una mano con le spese importanti, quelle che io ritenevo importanti, anche i miei vecchi amici per un po’ mi aiutarono senza chiedermi mai a cosa mi servissero quei soldi poi smisero. Prima i vecchi amici e poco dopo i nuovi. I vecchi si allontanarono, o accettarono il mio distacco non saprei dire, i nuovi diventarono aggressivi. “Abbiamo gli stessi bisogni amico, siamo sulla stessa barca ma chi non contribuisce al bene è meglio scenda.”. Avrei fatto meglio a scendere. Sì. Non furono rare le volte in cui nella mia mente facevo paralleli tra lo scendere dalla chiatta e lo schiattare. Una delle due sarebbe valsa tranquillamente l’altra. Ma quei viaggi, quelle emozioni, quelle esperienze valevano tutta la mia vita. Almeno così mi pareva, e se un modo c’era per viverli valeva la pena vivere la mia vita. Trovai modi alternativi per procurarmi il necessario. I primi furono dei piccoli furtarelli ma era difficile rubare soldi. Le casse dei negozi sono troppo controllate e non mi andava di fare una rapina. Le vecchiette portavano la borsa in quel modo fastidioso sotto il braccio che per strappargliela dovevi per forza fargli del male. Solo le ragazzine portano ancora la borsa alla leggera che glie la puoi portare via in un momento, ma non sempre ero fisicamente in grado di correre veloce, più veloce dei loro ragazzi o della gente. Così le usavo solo quando ero in forma, quando non era passato troppo tempo tra l’ultima volta e la prossima. Ero un bel ragazzo e scoprii presto che alcuni uomini sarebbero stati disposti ad aiutarmi se io avessi aiutato loro e così lo feci, feci il possibile per soddisfarli e così riuscivo a soddisfare me, la mia brama di viaggiare. Ci volle diverso tempo prima di cominciare a farmi schifo da solo. Non succede mai tutto di un botto ma comunque mi ce ne volle più di quanto ce ne voglia ad una persona normale. La mia vita era come una sinusoide, su, giù, su, giù, su giù. Il ciclo iniziava sempre dall’ultima volta. Subito dopo l’ultima volta ero un dio. Subito dopo l’ultima volta il mondo era bello e se anche era brutto non me ne fregava un cazzo. Poi l’ultima volta cominciava ad allontanarsi e vedevo il mondo diversamente. Vedevo me stesso diversamente. Stavo invecchiando precocemente, stavo distruggendomi ed era ora di chiudere una volta per tutte. Non era quello il punto più basso. Il punto più basso era più avanti, non a metà tra l’ultima volta e la successiva. Spesso era più vicino alla successiva. Il punto più basso era il momento in cui il desiderio tornava a farsi forte, il momento in cui mi rendevo tragicamente conto che non potevo fermare il ciclo. Non questa volta. Lo avrei fermato alla prossima tuttalpiù. Tornavo a compiacere qualche uomo, o a portare via la borsa qualche sciacquetta, o peggio nel tempo. O peggio. E poi finalmente potevo ricominciare il ciclo. Ero nuovamente un dio e fanculo a tutti.
Per un po’.
Ancora oggi non sarei in grado di dire di non farlo. Perché la mia vita è stata fantastica in questi pochi anni che ho vissuto. Non sono in grado di dirti che i miei viaggi non siano stati epici, che non lo rifarei. Guardo mio padre negli occhi mentre mi guarda negli occhi. Sa che vivrà più di me. Sa che un padre non dovrebbe mai vivere più a lungo del proprio figlio ma sembra più giovane di me. O io sembro più vecchio di lui. Ormai sono anni che gli uomini non mi vogliono più per compiacersi e le rapine ho dovuto imparare farle, qualche volta ho dovuto trovare il coraggio di strappare la borsa a qualche vecchietta perché non ce la faccio più a scappare dai morosi delle squinze. Una volta uno di quei ragazzi mi ha pestato a sangue e poi sono stato arrestato. Il carcere è stato il periodo più brutto della mia vita. Non potevo viaggiare. Non potevo fare ed avere esperienze. Quando ne uscii mi dicevano “Ora sei pulito! Cambia la tua vita!” ma io mi sentivo sporco. Sporco e schifoso. Anche in carcere avevo dovuto compiacere alcuni per sopravvivere ma non mi importava, dovevo solo aspettare il tempo di uscire. Il tempo della prossima volta.
Mio padre sa che me ne andrò presto, e lo so anche io, e lo sanno questi medici che non fanno che farmi la morale e dirmi che sono le conseguenze della vita sregolata che ho avuto. Hanno ragione. Sì. Hanno tutti ragione. Avete tutti ragione. Sbaglio solo io. Ma l’avete provata voi quella prima volta? Quella sensazione di sentirsi speciali, quella voglia di rovesciare il mondo, quella consapevolezza? L’avete provata? Allora no. Non lo potete capire perché un uomo può ridursi così.
Se vi consiglierei di farlo? Sì. Se volete rimanere da soli, guardarvi avanti ed accorgervi che domani non esiste. Guardarvi dietro ed accorgervi che ieri è terra bruciata. Guardarvi ora ed accorgervi che non siete più nulla se non un pezzo di carne che pulsa ancora un po’.
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Fuga dal mondo. Parte 1
di Stefano Giolo 11 Marzo 2017
“E se scaviamo una buca per passarci sotto?”
“Ci vuole un sacco di tempo!”
“Sì, ma la maestra non ci vede, possiamo farlo tutti i giorni fino a quando si passa!”
I due ragazzini avevano otto anni, attorno quasi tutti gli altri stavano correndo o urlando, in molti si erano organizzati per giocare a calcio occupando la gran parte del giardino. Le maestre chiacchieravano tra loro dall’altra parte ed un cespuglio proteggeva la privacy dei due aspiranti fuggitivi.
“Forse hai ragione. E se invece ci fosse un buco da qualche parte?”
“Possiamo provare a fare il giro. Ma dobbiamo controllare che non ci guardino.”
Il più alto dei due indossava una tuta grigia con sulla parte davanti il disegno di un supereroe sconosciuto, probabilmente inventato da chi produce la tuta. Portava degli occhiali quadrati e decisamente anni settanta, il più basso aveva un paio di Jeans ed un maglioncino rosso di cotone. Sembrava il più sveglio dei due.
“Facciamo così” disse “Io mi muovo verso quell’angolo controllando, tu fai da palo e guardi se le maestre si insospettiscono, va bene?”
“Va bene” rispose il più alto voltandosi nella direzione delle maestre. Sembravano intente in una discussione accesa, cose da grandi sicuramente, politica o scarpe, o magari parenti, cose così. Quando si voltò a guardare il suo amico sembrava scomparso. In un angolo in fondo la rete era piegata in un punto in cui non era fissata al terreno ed era possibile passarci al di sotto. Probabilmente era uscito di lì senza dire nulla, o forse l’aveva detto ma lui era stato troppo concentrato a guardare le maestre. I compagni sembravano tutti distratti a giocare a calcio, le compagne a parte qualcuna stavano facendo un qualche gioco in un’altra zona del giardino, probabilmente giocavano alle mamme o a qualche cosa da femmine che a lui comunque non interessava. Era il momento giusto per fuggire. Per scoprire cosa fosse il mondo oltre alla scuola e a casa di mamma. E soprattutto era l’unico modo per raggiungere il suo amico, ovunque si fosse ficcato.
Fece un grande respiro e si avvicinò lentamente al buco, si voltò nuovamente a controllaree sembrava che nessuno stesse guardando nella sua direzione. Provò ad alzare un po’ la rete e non sembrava difficile passarci sotto, ma si fece prendere dalla paura.
E se fosse stato scoperto? Non era il caso di pensarci meglio? Presto però sarebbe finita la ricreazione, sarebbero rientrati ed avrebbero scoperto l’assente, avrebbero controllato centimetro per centimetro il giardino e scoperto il buco e lo avrebbero chiuso. Non ci sarebbe stata una seconda occasione. Alzò la rete e vi si infilò sotto. Iniziò infilandosi di testa ma un’estremità puntuta della rete si impigliò nella tuta, era la sua tuta preferita ma strattonò comunque strappandolaun po’. Una volta arrivato sull’altro lato rimase sdraiato e si voltò a a guaradre il giardino. Nessuno si era accorto di niente.
Anzi no.
Una bambina lo stava guardando seria, era quella che gli era sempre piaciuta di più ma non aveva mai avuto il coraggio di rivolgerle la parola. Lui portò l’indice sulle labbra e le fece segno di non dire niente a nessuno, lei sorrise e annuì.
Tra tutti i giorni in cui potevi partire
di Stefano Giolo 9 Febbraio 2017
Tra tutti i giorni in cui potevi partire perché hai pensato proprio il lunedì? (Cit. Carmen Consoli)
Mi chiedo se sia stata la tua ironia o il voler iniziare col tuo nuovo lavoro ad inizio settimana, o se tu abbia voluto non rovinarci la domenica che ti era sacra per il riposo. “Si riposa prima di un lungo viaggio” e forse hai fatto così.
Ricordo la tua espressione di quando dicevi queste frasi, con quell’aria un po’ stanca ed un po’ severa, come fossero regole che tutti avrebbero dovuto imparare che so, a catechismo assieme ai dieci comandamenti. Ci tenevi che fossero regole ovvie. Un’altra era “Ridi sempre che ridere che è una cosa seria”. E così ti guardo lì steso in quella bara, nella camera ardente e mentre gli altri non mi osservano mi viene da ridere. Un riso sincero sai? Perché alla fine hai scelto tu il giorno, il momento e ci hai sempre detto “il momento non lo sapete” ma tu era come se il tuo lo conoscessi da una vita. Ci hai preparati lentamente rendendoci tutti in grado di vivere senza la tua presenza, trasmettendoci ogni istante il tuo sapere, la tua esperienza, la tua ironia. Pensavo giusto qualche tempo fa quanto tu avessi dato a tutti noi, e giusto poco dopo, eccoti. Ti volti con quel tuo sorriso, ti togli il cappello e saluti con una risata, la tua risata che sembrava un colpo di tosse secca. Non se lo aspettava nessuno ed anche qui ci hai preso in giro con uno dei tuoi colpi di teatro, non se lo aspettava nessuno.
Mi sembra quasi di vederti ghignare sdraiato, come quando si capiva che avevi preparato uno scherzo ma non si riusciva a capire quale fino al momento in cui sarebbe accaduto, come quando mettesti nel contenitore del sale della carta da forno e sopra il pepe, o quando a Natale nel pacco regalo col mio nome mettevi una Barbie ed in quello di Michela un Big Jim, ti divertiva vedere le nostre facce a guardarci i regali scambiati e vederti ridere faceva ridere noi. Mi sembra quasi di vederti ghignare sdraiato e penso che da un momento all’altro ti alzerai ridendo e dicendo “Pensavi davvero che me ne sarei andato quando stanno per aprire l’Ikea? Senza portarmi via delle polpettine svedesi e la marmellata di mirtilli?”.
Ma non lo farai. Non questa volta.
Forse il tuo scherzo più grande è questo, farci credere che non te ne saresti andato così, di lunedì, ed invece andartene davvero.
È stato il più grande colpo di teatro andartene ora, quando nessuno ti guardava e tutto quello che eri l’avevi donato. Quando di te hai lasciato più tracce in noi di quanto ci saremmo mai aspettati.
Il tuo più grande colpo di teatro, serve a farci capire chi siamo.
Silenzioso deserto
di Stefano Giolo 5 Febbraio 2017
Osservo attorno a me. Sabbia e deserto e null’altro, e silenzio. Nessun uomo ha mai visto il deserto come lo sto vedendo io ora, nessun uomo ha mai vissuto il silenzio come lo sto vivendo io.
Ed è pace eternamente immobile. Non c’è vento qui. Non c’è pioggia. Non c’è vita.
Questo è il primo momento in cui posso davvero guardarmi attorno senza l’ansia di cosa possa accadere, prima dell’ansia di cosa possa accadere. Ironico che sia anche l’ultimo momento che passerò qui. La prossima volta sarà qualcun’altro al mio posto, o forse chissà un giorno…
Da qui il mondo è così piccolo, infinitesimo. Come guardare uno di quei souvenir che si comprano nelle grandi città: la Tour Eiffel in una sfera di cristallo, il Colosseo. Una sfera di cristallo da prendere e ruotare per vederci scendere la neve. Non è molto più di questo il mondo quando lo osservi da qui. Eppure l’unico souvenir che avrò sarà qualche roccia ed il ricordo indelebile, tatuato per sempre di come l’intera umanità se ne stia a litigare dentro un piccolo ricordino da viaggio.
“Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini.”, lo aveva detto Jurij.
Penso a come lì, in quella piccola sfera uomini convinti di essere al centro dell’universo abbiano combattuto guerre, e siano morti, o semplicemente si siano sentiti in dovere di far sapere al mondo delle proprie avventure sentimentali, universitarie o che cosa stessero cucinando in quel momento, convinti di poter cambiare tutto, di fare la differenza.
Da qui posso prendermi un istante per osservare come tutto quello sia incredibilmente ridicolo.
Ora che sto per lasciare tutto questo silenzio, tutto questa sabbia su cui ho lasciato orme che rimarranno nei millenni, ora che sto per tornare laggiù su quella sfera ho un momento di paura. Non temo il viaggio, ci siamo arrivati qui, torneremo a casa, ma il contatto di nuovo col suono. Come sarà il contatto col suono? Con la frenesia della vita in quegli spazi ristretti che sono case, o uffici o palazzi?
Mi chiedevo quale sarebbe stata la colonna sonora migliore qui. Ma ho capito solo venendoci che i suoni che sento, il mio respiro ed il silenzio assoluto sono una colonna sonora che nessuno mai potrebbe immaginare, rovinare, storpiare con i suoni del mondo. Fermare il respiro ed ascoltare il silenzio fa venire voglia di non respirare più per non infettare l’universo di suoni che fuori da questa tuta sarebbero comunque silenzio assoluto.
Provo nostalgia di questa sabbia, di questo luogo che sto lasciando e mentre alzo il piede per salire la scaletta del Lem so che è inutile cercare di comprendere l’eterno, l’abisso. Va solamente vissuto.
Va solamente vissuto.
Ascoltando.
Alex pt2 (Umanità)
di Stefano Giolo 31 Gennaio 2017
(Precedente: Alex pt1)
Non puoi capire come gli innesti cibernetici ti cambino fino a quando gli innesti cibernetici non ti hanno cambiato. Non puoi capire fino a che punto tutte quelle stronzate del fatto che ti facciano perdere umanità non siano affatto stronzate. Il primo innesto l’ho fatto quasi per gioco, per moda. Non avevo ancora i miei seguaci all’epoca ma ero entrato nel gruppo da poco. Ognuno di loro aveva la propria caratteristica speciale, che lo rendeva più minaccioso. Gli anni dei tatuaggi, dei piercing o delle creste in testa erano passati, cioè voglio dire tutti li avevano e non era più un segno di distinzione, era quasi conformismo almeno tra chi viveva nei bassifondi, gli innesti sottocutanei tradizionali erano anche questi roba passata. C’era chi si era fatto innestare un braccio bionico solo per il gusto di averlo e di essere più forte senza dover sostituire necessariamente un braccio non più funzionante, c’era chi si era fatto innestare mezza calotta cranica in acciaio a vista, chi denti in titanio affilati. Quello con i denti in titanio tra l’altro si tagliava spesso mangiando, anzi si taglia ancora, è quello che uso come capo apparente, quello che in formazione sta davanti a tutti fingendo di essere me. Io sono sempre stato un ragazzo timido almeno all’apparenza, un ragazzo dimesso. La prima installazione che mi sono fatto fare è stata una sostituzione dell’iride. La prima versione che avevo installato si limitava ad illuminarsi di rosso quando lo sceglievo. Mi permetteva di rimanere anonimo ma diventare minaccioso al bisogno, non era ancora una versione come quella di oggi con la sostituzione completa del bulbo oculare per avere la visione a zoom ed il mirino migliorato. Ce l’ho su un solo occhio comunque, per evitare problemi nelle zone in cui è richiesto lo spegnimento delle attrezzature cibernetiche. Almeno l’altro occhio continuerà a vedere. Solo le funzioni di vista aggiuntive le ho ad un solo occhio, le illuminazioni ed i cambi di colore li ho ad entrambi ovviamente. Ma in genere li tengo normali su un banale colore marroncino chiaro. Non sentii nessun cambiamento particolare al primo innesto. Più avanti dopo l’incidente sostituii il braccio destro. Mi era rimasto maciullato e a ripararlo non sarebbe più venuto bene, lo sostituii comunque con un modello similumano, senza metallo a vista, e cose tamarre. Mi piace l’idea di rimanere anonimo, di non essere troppo notato. Certo la forza del braccio è un tantino migliorata, e con essa la precisione di tiro. Il puntamento con l’occhio è automatico e la precisione farebbe impallidire un cecchino, era di dotazione in offerta nel prezzo e così ho fatto installare la nuova versione di occhi, anche se me piacciono ancora le lame. Certo anche il lancio di coltelli è agevolato comunque ma preferisco lavorare da ravvicinato quando posso. Nadja quasi non si accorse del cambiamento, nel periodo dell’incidente eravamo forzatamente lontani e preferii non coinvolgerla, si accorse della differenza una sera.
“Tutto bene?” disse. “Sembri freddo, quasi inumano.” disse.
Io risi. Non avevo ancora capito.
Il terzo innesto che installai furono dei filtri ai polmoni. Dei filtri avanzati. Era accaduto di trovarmi in un tafferuglio con gli sbirri ed avevo scoperto che non amo molto respirare fumogeni. Mi pareva una buona soluzione ed avevo abbastanza soldi in quel momento. Le modifiche mi stavano rendendo migliore. Mi stavano rendendo migliore degli umani comuni. Stavo diventando superiore ai comuni umani.
Il quarto innesto fu un cuore avanzato, in grado di pompare il sangue più velocemente in caso di emergenza e di rallentare quando necessario per non causare l’affanno. Accoppiato ai polmoni bionici controlla ed ottimizza la resistenza fisica e lo sforzo. Hanno dovuto iniettarmi in circolo una sostanza simile a silicone per rinforzare le vene e le arterie, in passato c’erano stati casi di aneurisma da sovrapressione, ictus e altro.
Ora ero davvero superiore agli umani. Sotto ogni punto di vista. Superiore. Fu un momento iniziare a snobbarli, a non considerarne neppure l’uso in attacchi di scarso valore, inaffidabili, facili a rompersi. Un giorno guardai Nadja e mi chiesi per quale motivo dovessi stare con una donna così. Non era più in grado di resistere a letto il tempo che desideravo, e spesso piangeva per motivi futili. La notte non mi era più così necessario dormire perché l’ossigenazione migliorata del sangue era in grado di tenermi sveglio molto più a lungo, lei invece aveva sempre bisogno di ricaricarsi e dormire. Se non lo faceva di notte doveva comunque farlo il giorno dopo ed io mi trovavo in difficoltà a seguire i suoi cicli di sonno e d’altro genere. Mi resi conto in fretta che stare con un’umana era un inutile perdita di tempo. Fu così che la lasciai la prima volta. Fu così che la persi assieme alla mia umanità.
Perché vivo?
di Stefano Giolo 27 Gennaio 2017
“Non sei tu il mio problema. Voglio dire, che sì, ci sto male, mi si strappa l’anima ma il mio problema non sei tu.” era seria mentre lo diceva, molto seria. “Piuttosto ho creduto che tu potessi esserne la soluzione. Che tu mi avresti portato via da tutto questo. E non è colpa tua se non l’hai fatto, se le mie aspettative sono state disattese, è stata la mia fuga, il mio usarti come mia fuga.”
Mi accorsi solo in quel momento che il cielo plumbeo alle sue spalle sembrava essere lì a sottolineare le parole che lei stava pronunciando. Come se avesse organizzato lei tutto questo, e forse è così. Mi accorsi solo in quel momento anche del rossetto scuro che evidenziava le sue labbra. Non lo aveva mai messo prima, o almeno non che io ricordi. Mi ero mai accorto davvero di come si truccasse?
Rimasi in silenzio. E lei abbassò le spalle come arrendendosi alla mia stupidità.
“Non lo capisci vero? Io non ho davvero nulla contro di te e non voglio recriminare nulla, ti sto dicendo solo perché sto male, anzi non perché sto male ma perché non ci sto a causa tua.”
Il vento le aveva portato una ciocca lunga di capelli ad appiccicarsi di sbieco sul viso, attraversando quelle labbra scure fino all’altro lato. Ci mise qualche secondo a trovarlo e rimetterlo a posto. Giusto mentre mi stavo accorgendo della sottile linea di eyeliner, non avevo mai fatto caso neppure a questo, se mai lo avesse usato prima.
“Non capisco” dissi. “Hai ragione, non capisco, ma cos’è allora che non funziona tra noi?”
Mi guardò come fossi uno stupido, ruotò gli occhi verso l’alto con l’aria sfinita e si prese qualche secondo prima di rivolgermi nuovamente la parola. Eravamo in piedi uno di fronte all’altra, sul marciapiedi.
“Non c’è nulla che non funzioni tra noi, sono io il problema, è dentro di me il problema.”
“Ne vuoi parlare?” le dissi immediatamente quasi interrompendola mentre una nuova folata di vento le spostava i capelli. Probabilmente di lì a poco si sarebbe messo a piovere e rimanere qui in piedi impalati come due scemi a prendere freddo non mi sembrava l’opzione migliore. Ma credo sarebbe stato peggio proporle in quel momento di entrare nel locale.
“No”. Rispose.
“Va bene” dissi prendendomi una pausa “va bene, allora, probabilmente è meglio così.”
“No! Non c’è nulla che vada bene invece! Proprio nulla!” Mi aggredì in quel momento. “Il problema è la mia vita, semplicemente l’ineluttabile fallimento completo della mia vita!”
Rimasi in silenzio a guardarla, non avrei saputo come reagire diversamente.
“Guardami. Tutto quello che sognavo di fare l’ho fatto. Oppure ho capito che non faceva per me, che non avrei dovuto lottarci ulteriormente. Tutto quello che mi resta è nessun amico, nessuna aspirazione, nessun desiderio”
“Io non sono un’amico?”
“No.” Mi guardò con aria torva.
“E cosa sono allora?”
“Nulla. Non sei nulla, non più, sei stato la mia fuga da tutto questo, la mia illusione di fuga ma ora ti guardo e sei lì a guardarmi come uno scemo come se stessi guardando un film e non ti rendi neppure conto di cosa stia succedendo, come non mi sono resa conto io che stavo proiettando in te solo stupidi desideri.”
Rimasi di nuovo in silenzio.
“Ti sei mai chiesto perché? Sei vivo?”
“No. Voglio dire, sono vivo perché mi hanno messo al mondo.” Risposi.
“Già, e perché sei ancora vivo?”
“Perché non sono morto prima. Credo.”
“Sei vivo perché hai dei sogni, un motivo di vivere, un motivo di andare avanti.”
“Tu no?” dissi stupito.
“No.”
“Come no?”
“Questo è il male che mi mangia dentro. Semplicemente questo”. Rimase in silenzio a guardarmi.
Io non sapevo come comportarmi e continuai a guardarla provando a sostenerne lo sguardo ma non era semplice. Avrei voluto essere in qualunque altro posto, o essere in grado di dirle la parola giusta se esiste una parola giusta in questi casi.
“Lo sai invece perché non sei ancora morto?” mi disse con aria di sfida.
Rimasi un po’ ancora in silenzio prima di rispondere “Credo per lo stesso motivo.”
“Quasi.” Disse. “Perché non hai un motivo di morire. Ci ho pensato spesso alla morte, i suicidi lo fanno spesso per rivalsa, per far soffrire qualcuno, per lanciare un messaggio, per avere la magra consolazione che qualcuno li piangerà. Morire non è una fuga ma un’atto di eroismo e ogni atto di eroismo è volto verso qualcuno”
“Eroismo?”
“Sì, è come mettersi a dieta, o uscire a correre, è uno sforzo aggiuntivo che devi fare all’alzarti dal divano. Una persona come me, una che non ha più un motivo di vivere non ha neppure un motivo di alzarsi dal divano. Figurati se ha la forza, l’impeto, il desiderio di fare qualcosa di così complesso come togliersi la vita.”
Cominciava ad agitarsi, sembrava più tetra e al contempo più bella, paradossalmente più viva. Una piccola vena le pulsava sulla tempia.
“Non sono ancora morta perché nessuno mi piangerebbe” aggiunse “perché nessuno soffrirebbe davvero della mia morte”.
Stavo per intervenire in mia difesa quando mi interruppe “No. Neppure tu. Piangeresti un giorno, forse due, poi in breve ti scorderesti di me, di tutto. Sono ancora viva perché non ho un valido motivo di uccidermi.”
Rimasi di nuovo in silenzio a guardarla.
“Anche solo una sfida, un testa o croce di qualcuno che mi sfidi, anche solo un dimostrare qualcosa a qualcuno potrebbe spingermi. Spingere da una parte o l’altra l’ago della bilancia. Anzi da una parte sola, visto che finché vivo l’ago è comunque chiaramente dall’altra.”
“Un testa o croce?” dissi con voce sospesa.
“Sì. Vuoi giocarci?”
“Cosa?” dissi non capendo.
“Vuoi giocare a testa o croce con me?” Sembrava improvvisamente più rilassata.
“Va bene” dissi insicuro, non avrei saputo rispondere altro. Qualunque cosa mi avesse chiesto in quel momento non avrei saputo rispondere altro.
“Lancia una moneta.” Ci misi un po’ a trovarne una, in fondo alla tasca dei jeans c’era una moneta da due euro la lanciai senza neppure chiedermi nulla e quando la fermai in mano lei rimase a guardarla qualche secondo.
La vena sulla tempia aveva smesso di pulsare ed il vento sembrava leggermente calato, iniziava a scendere qualche goccia invece. Poco o nulla, ma presto si sarebbe trasformato in uno scroscio e ci saremmo completamente bagnati se non ci fossimo spostati. Lei rimase in silenzio a guardarmi negli occhi. Si aspettava le chiedessi cosa avesse puntato immagino, ma la mia testa in quel momento era altrove. Vuota e altrove.
“Io vado” mi disse dopo alcuni secondi. Prima che intervenissi si era già voltata e si stava allontanando.
Non la seguii.
Fu l’ultima volta che la vidi.
Il mago di Oz (La porta del paese delle meraviglie – Sequel)
di Stefano Giolo 18 Gennaio 2017
Fu sul tragitto di quella strada,
su quei mattoni gialli che affrontai infine il destino che attendevo.
Fu quando scoprii il mago dietro al telo,
quando dietro al telo scoprii lo specchio che mostrava il mago.
Mi scoprii con un cilindro in mano,
mi scoprii con una mano nel cilindro,
ma non c’era pubblico a cui mostrarlo.
Mi scoprii il mago,
e il pubblico,
e tutto,
e nulla.
Tirai fuori la mano ma il coniglio era già fuggito.
Tirai fuori la mano e trovai un orologio rotto.
Il pubblico non applaudì.
Le sfiorò le mani
di Stefano Giolo 12 Gennaio 2017
Era una serata come un’altra, come mille o come nessuna. Attorno le auto in movimento erano poche, finite le feste la gente era ormai stufa di andare in centro ed era il momento giusto per frequentarlo prima che alla gente tornasse la smania degli acquisti grazie ai saldi.
Era in piedi, era ormai il momento di salutare gli amici dopo una serata piacevole seppur breve, s’era parlato di ogni cosa, di forse e di ma e di certo e di altro ed ancora. Una serata come altre. Di fronte a lui a ridere e parlare un vecchio amico, e due nuove e la distanza frapposta della novità, del non essere nella zona di confort seppure confortato da una situazione piacevole.
Lui le sfiorò le mani. Voleva sentire solo la consistenza di quei guanti di pelle morbida e niente altro. Lui le sfiorò le mani e mentre le sfiorava le mani il mio sguardo cadde su quelle quattro mani, sulle due a stringere le altre due, e sullo sguardo di lui. Rideva con assoluto candore, guardando quelle mani e non lo sguardo che stava poco dietro. Quello sguardo si fece un’istante serio, o forse fu una mia impressione. Si fece serio il mio indubbiamente, involontariamente mentre dentro di me qualcosa di caldo si scioglieva dalle pareti alte del mio interno precipitando improvvisamente verso il basso come in un vortice che non riuscivo a comprendere.
La ragazza voltò lo sguardo verso di lui e parve un’istante accorgersi di cosa accadeva nella sua mente. Un’istante prima che la strada si inclinasse. Mentre la strada si piegava in un imbuto i palazzi attorno si alzavano e le macchine parcheggiate cominciavano a muoversi verso di loro, tutto divenne in qualche modo liquido e mentre cadevano sembravano fondersi in un unico nulla di unico gorgo nero. Tutto attorno a lui era improvvisamente scomparso. O apparso. Quando aprì gli occhi viaggiava su di un treno. Gli parve di averlo aspettato secoli quel treno. Di fronte a lui seduta una donna, aveva lunghi capelli neri con dei riflessi rossi di hennè, il suo viso era rilassato e dolce, gli occhi grandi, le sopracciglia curate ed un piccolo piercing a luce nell’incavo del naso. Era in sovrappeso ma nascondeva molto bene la cosa valorizzando con vestiario le parti migliori. Si sarebbe detta una madre ideale. Al di sotto del mento un taglio netto le aveva aperto il collo in una linea dritta da una parte all’altra e lei aveva continuato a sorridere nonostante. Le braccia erano stese aperte con le mani appoggiate ai sedili accanto come per alzarsi, le dita spiegate ed allargate. Il sangue aveva smesso di uscire da un po’ ed aveva sporcato tutto lo scompartimento. Il ragazzo riusciva a vedersi dallo specchio sopra la testa di lei e da quello vedeva lo specchio dietro di sé. Si guardò il corpo, non vi era alcuna traccia di sangue, e pur sedendosi sul sedile sporco non si sporcava. Aveva in mano un bisturi però. Questo sì, sporco di sangue.
Si allontanò dallo scompartimento con calma camminando nel corridoio, aveva lasciato la porta scorrevole aperta e camminando guardava stancamente come tutti gli altri posti fossero vuoti. Camminò fino all’ultimo vagone senza incontrare anima viva o morta che fosse. Aveva ancora il bisturi in mano, lo osservò. Il sangue era secco, il sangue stesso nello scompartimento era secco seppure il colore fosse vivido e forte come fosse stato nuovo.
Il treno era in movimento ma all’esterno il mondo non sembrava più reale di un film i cui fondali fossero disegnati malamente e gli pareva continuassero a ripetersi, ripetersi, ripetersi incessantemente. Provò ad aprire un portellone e non accadde nulla, provò a tirare il freno di emergenza e di nuovo non accadde nulla.
Appoggiò la lama al proprio collo e spinse con forza. Un getto nero uscì inondando a schizzi l’ambiente circostante, una quantità enorme e troppo scura di liquido lo avvolse e tutto divenne nero, il liquidò gli entrò in bocca soffocandolo, nei polmoni, dentro al corpo e si fissò dentro all’interno come attaccato a pareti di una grotta.
“Bene, allora noi andiamo, dai magari la prossima volta ci si vede per un aperitivo, no?” disse l’altra ragazza, quella senza i guanti di pelle.
“Sì, potrebbe essere.” rispose lui.
Un’auto li illuminò un’istante con i fari mentre passava lì accanto. I tre si allontanarono e solo quando rimase solo premette il tasto sulla chiave, salì in macchina e l’avviò per tornare a casa.
Immemori battaglie pt6: Da dove proveniva il lampo. Da dove proveniva il tutto.
di Stefano Giolo 3 Dicembre 2016
Da dove proveniva il lampo?
Sono sicuro di aver premuto io il grilletto, ho sentito anche il botto.
Ma allora perché sono riuscito a vedere così bene il volto dell’uomo dall’altra parte, a vederne l’uniforme? Era identica alla mia.
Era identica alla mia.
Il buio è tornato e gli occhi abbagliati dal lampo, forse dai lampi mi impedisce di guardare ancora quell’uomo ma sento il fischio di un proiettile nella mia direzione, tra pochi decimi di secondo sentirò il botto provenire dalla direzione di quell’uomo se non mi sto sbagliando e l’unico movimento che riesco a fare e quello per toccare la tasca sinistra e vedere che lì c’è ancora il nuovo feticcio che potrei non consegnare più. Che non avrei mai consegnato comunque.
Poi come un tarlo nella testa sento un dolore cupo avanzare tra i pensieri, qualcosa che scardina ogni altro pensiero, inaspettato. Un ricordo, una rivelazione, una comprensione tragica e forte di cosa mi abbia portato qui e di quale fosse stata la mia missione.
Si fa strada spostando ricordi, istanti, distruggendo, aprendo.
Apro gli occhi.
“Quindi? Hai deciso?” mi dice l’uomo di fronte a me.
Mi ricorda me stesso, me stesso invecchiato. Ha perso gran parte dei capelli e le rughe gli segnano il volto. La carnagione sembra più chiara, forse ha problemi di pressione bassa?
Sembra consumato e magro.
“Qual’è la tua scelta definitiva?” mi dice.
“Fallo” rispondo.
Appoggiato sulla scrivania uno stiletto lucido e perfetto di acciaio. L’uomo con tutta calma lo raccoglie e mi gira attorno mentre resto immobile e chiudo gli occhi. Sento le sue braccia cingermi un attimo e spostarmi i capelli poi la lama mi sfiora sotto l’orecchio sinistro, la punta scorre lentamente fino al punto dove la mascella si unisce al cranio e rimane ferma un secondo mentre l’uomo cerca la giusta inclinazione. Poi quasi senza dolore sento la lama entrare nel mio collo. Dura un’istante solo come la puntura di una siringa prima che vada a recidere il midollo tra due vertebre staccando di fatto ogni sensazione del corpo.
Tutto sommato è stato gentile.
Apro gli occhi ed il cane è ancora lì.
Dall’altra parte della rete.
Abbaia e ringhia.
Ringhia.
Lo so che è dall’altra parte della rete e non potrà farmi male ma sono un bambino e il terrore mi sta paralizzando. Cerco la mano del nonno ma non la trovo e non riesco a fuggire.
Non vedo altro attorno, non riesco neppure a voltare lo sguardo.
Cerco di svegliarmi, ma mi accorgo che il dolore al ginocchio sbucciato è reale.
Cerco di svegliarmi.
Ma sono lì.
Sono lì.
Immemori battaglie pt5: -lampo-
di Stefano Giolo 28 Novembre 2016
Non è lo sparare l’atto principe dell’azione, è solo la conseguenza. Tutto l’insieme dell’atto è soprattutto nella respirazione e nell’attesa. Un susseguirsi di momenti in cui riempi i tuoi polmoni, stabilizzi il corpo e attendi un susseguirsi di istanti che sarebbero quelli sbagliati. Dal puntare al momento in cui premerai il grilletto passano solo pochi secondi di inspirazione, attesa, stabilizzazione della mira. Poi arriva l’istante esatto, subito dopo è troppo tardi. La mano incomincerà a tremare, il peso dell’arma a pesare, il cuore accelererà pompando il sangue e non potrai fare altro che abbassare l’arma e ricominciare un nuovo ciclo.
Il nemico è là, in fondo alla canna del mio fucile, allineato al mirino, poco più in basso per bilanciare la curva della traiettoria lunga. Il vento è calato in questa notte fredda e lo vedo mentre mi cerca col lo sguardo. Il colpo che ha appena sparato gli ha fatto perdere il punto, o forse non si era accorto fossimo in due quando ha ucciso il mio compagno.
Passano nella mia mente infinite cose mentre inizio ad inspirare l’aria nei miei polmoni, passano i nomi degli uomini di cui ricordo il volto nella morte, passa l’impressione di essere già stato a questo punto come in un dejavu, mi sembra anche di ricordare come sia andata a finire ma il ricordo si ferma un’istante prima di arrivare alla mia mente cosciente. Non riesco a farlo.
Un tempo ero stato spietato, e non mi occorreva pensare, i movimenti immediati in una successione unica erano oliati di anni di esercizio e non serviva ragionare, le mie mani non tremavano neppure sotto la più grande pressione ma questa volta sto involontariamente lasciando al nemico il tempo di armarsi di nuovo e di puntarmi. So che se vedrò un lampo avrò ancora solo il tempo di premere il grilletto prima di sentire il colpo addosso e poi il botto, e non avrei il tempo di sapere dove sia finito il mio proiettile ma so anche che non avrò una seconda possibilità.
Potrei nascondermi ed aspettare che vengano a prenderci tutti.
Potrei urlare e svegliare i miei e nella loro agitazione prendere quello zaino e fuggire evitando forse i loro spari alla schiena.
Potrei invece essere uomo ed uccidere il cecchino prima di svegliare i miei e fare il mio lavoro.
“Quindi hai deciso?” mi rimbomba nella testa la voce.
Mi sento come quando hai il terrore dei cani e c’è un cane dall’altra parte della ringhiera, quando sai che non potrà farti male ma hai il desiderio forte di fuggire lo stesso, quando hai le spalle al muro e sai che ormai è tardi per fuggire e che l’unica cosa che puoi fare è affrontare quella paura. Non temo l’uomo che ho di fronte, ne la sua pallottola, ne la morte. Temo di fallire la mia missione, non quella di questi uomini, non quella per cui sono vestito in questo modo, ma la mia missione, quella per cui sono nato.
Ho il ricordo fisso di avere già usato questa metafora, o forse è solo un ricordo di quando da piccolo provavo il terrore per i cani per colpa di quel bastardo che mi ha morso.
Il fucile di quell’uomo è puntato verso di me ora. Ora so che non avrò un altro tentativo, ne la scelta di fuggire. Conta solo chi dei due avrà per primo le mani ferme.
“Quindi? Qual’è la decisione? Il tempo non è infinito e la fuori molte pedine si stanno muovendo.” mi rimbomba nella testa la voce.
Sento il cane abbaiare e qualcuno recita i nomi delle persone che ho lasciato indietro, sembra la voce del biondo, nella mia testa. Solo nella mia testa.
Quanto sarà passato, tre secondi? Non è ancora il momento, non lo è ancora, la mano trema sotto il peso del feticcio, la mano trema come a sostenere un peso che va al di là di quello di questo fucile, la mano trema. Non è ancora il momento.
“Quindi? Hai deciso?” ancora nomi, credevo fossero meno, credevo di aver lasciato meno persone dietro.
Abbai di cane rabbioso. Nella mia testa. Nella mia testa.
Questo è il -lampo- momento.
Immemori battaglie pt4: Spari?
di Stefano Giolo 21 Novembre 2016
“Puzzi di grappa Baffo.”
Nessuna risposta.
“Puzzi di grappa, Stronzo mi vuoi dire che hai fatto la sta notte? Sei rimasto a scolarti la bottiglia? Non sembrerebbe, è ancora quasi del tutto piena!”
Nessuna risposta.
“Hai una bottiglia nascosta da qualche parte?” si stava alterando.
“Senti Biondo. Lo sai che non bevo, non troppo almeno.” Baffo sembrava realmente dispiaciuto e altrettanto dispiaciuta parve la risposta di Biondo.
“Lo so, qui beviamo tutti, non c’è modo di sopravvivere a questo senza bere ma non mi piace affatto come ti stai comportando, sembri bloccato, in panico, e lo sembri da giorni. Allunga un braccio in avanti.”
Baffo allungò in avanti il braccio, la sua mano tremava. Lui rimase in silenzio.
“Ti rendi conto che tu sei probabilmente il miglior tiratore tra di noi? Non spari un colpo da giorni, forse da settimane” Biondo stava osservando Baffo con uno sguardo grave, parlava a bassa voce. “La mia sopravvivenza, quella di tutti gli uomini che abbiamo attorno dipende anche da te. Credi non mi sia accorto che punti il fucile assieme agli altri e poi non spari? Che le uniche volte che lo fai spari volutamente fuori bersaglio?” Baffo guardava in basso, in silenzio. Osservava le proprie mani tremare e provava con scarso impegno a concentrarsi per fermarle.
Attorno il vento fischiava nella notte, era una notte umida e fredda, folate di neve entravano nella trincea e gli uomini non di guardia cercavano inutilmente di dormire.
“Credi che io possa fare la differenza?” disse Baffo, guardava lo zaino pronto con la coda dell’occhio.
“Tu credi di no? Credi che potresti prendere quello zaino e fuggire? Ci sei in mezzo ormai. Ci sei in mezzo con tutte le scarpe, ci sei in mezzo con tutta la vita. Se provi a scappare qualcuno ti sparerà alla schiena come disertore. Non sarò certo io, sia chiaro ma qualcuno di certo se ne occuperà. E lo stesso potrebbe accadere quando qualcun’altro si accorgerà che hai smesso di sparare. Il tuo cibo è il cibo di tutti, la tua acqua l’acqua di tutti, le tue munizioni le munizioni di tutti. Non puoi sprecarle e startene seduto qui in attesa che qualcosa accada. Se attendi la morte tanto vale indossare ora quello zaino e fuggire, almeno ti sparerebbe qualcuno di noi e non attireresti l’attenzione del nemico.”
Baffo rimase in silenzio di nuovo, guardò lo zaino senza nascondersi, poi strinse le mani, ne sfilò il feticcio ed iniziò a farlo ruotare tra le dita. Aveva incontrato un uomo che faceva lo stesso con una pallottola ed ipnotizzava la gente ma lui era in grado solo di ipnotizzare se stesso.
“Siamo di guardia, io e te” continuò Biondo, “io e te e nessun’altro. Cosa pensi accada se ci attaccano e tu non spari, se te ne stai lì immobile in silenzio mentre arrivano e ci massacrano tutti? Se puoi fare la differenza? Puoi far si che tutti questi uomini vivano o muoiano. Ognuno di loro, ognuno di noi può fare la differenza ogni istante, e non sai chi la farà, quando la farà. Siate pronti. Non è questo che ci hanno ripetuto mille volte? Siate pronti. Lo hanno detto a me, lo hanno detto a te, lo hanno detto ad ognuno di questi uomini. Tu non puoi salvare te stesso, sono loro che ti salveranno e loro, ognuno di loro non può salvare se stesso senza l’aiuto degli altri. Credi possa mai uno solo di noi sopravvivere da solo?”
Baffo rimase ancora in silenzio, scosse leggermente la testa mentre si toccava la camicia sulla tasca, sul cuore. Aveva rimesso il feticcio al suo posto ma subito dopo tornò a toccarlo e ancora se ne allontanò come un fumatore che avesse aperto il pacchetto anche se aveva deciso di smettere.
“Baffo. Davvero. Pensi di farcela? Credi di essere in grado di riprenderti prima che sia troppo tardi?”
“Non lo so.” rispose Baffo. “Non lo so.”
Un istante prima del botto Baffo fece in tempo a vedere un lampo e a sentire un fischio ed un rumore sordo come di un cocomero colpito da un martello. Il lampo era alle spalle di Biondo, poi arrivò il botto e quasi contemporaneamente pezzi mollicci e caldi gli arrivarono sul volto e sulla tasca, e altrove. Fece in tempo a vedere un buco nella faccia di Biondo, un buco nero che aveva portato via una parte del naso e si univa all’orbita di un occhio non più presente.
Si alzò urlando e puntò il fucile nella direzione da cui aveva visto il lampo.
“Maledetto! Ti ammazzo!” fu il suo grido. Solo nella testa.
Immemori battaglie pt3: Lettere e notti
di Stefano Giolo 19 Novembre 2016
Succede in notti come queste, notti subito prima o subito dopo di una battaglia, notti insonni, che accade. Dovresti pensare a fare un briefing per il giorno successivo o un debriefing del precedente ma non importa. Non ci riusciresti comunque. E forse è la grappa che hai buttato giù per non pensarci o il manto stesso della notte, del silenzio attorno mentre il mondo sembra scomparso e così lontano ma le inibizioni se ne sono andate, resti solo con te stesso e con i demoni che questa guerra avrebbe dovuto esorcizzare, i demoni da cui volevi scappare il giorno in cui hai iniziato questa strada ti osservano e ti ruotano attorno. Osservi il tuo zaino. Sai che è pronto, non ti serve neppure controllarlo. Sai che è pronto per fuggire al primo cenno di pericolo eppure lo hai scelto. Lo hai scelto tu questo percorso, hai scelto tu di lottare per questa causa, hai scelto tu di andare verso la gloria o la morte. Guardi anche il fucile del tuo compagno e lo carezzi, vorresti puntartelo sul mento e premere quel cazzo di grilletto, sarebbe una fuga così semplice, così veloce eppure non sei uomo neppure per andartene così.
Ci sono cose che hai deciso non avresti mai più detto, persone a cui avevi deciso non le avresti più dette eppure la notte, o forse quel sorso di grappa… era solo un sorso, non abbastanza ma ti ritrovi con un foglio in mano ed una penna e stai scrivendo parole che vorresti dire, vivere qualcosa che per esplicito ti è stato chiesto di non vivere, ed allora prendi un altro po’ di grappa, lo versi su quel foglio e poco prima di dargli fuoco ti rendi conto che qualcuno da lontano potrebbe vederlo, avresti potuto attirare il nemico. Ti tendi conto che ciò che hai scritto non solo è vero, ma resta indelebile nelle tue mani. Così asciughi il foglio e lo riponi nella tasca della camicia, la tasca sul cuore. Domani puzzerai ancora di grappa e ti daranno dell’alcolizzato e non potrai dire quanto vicino alla morte sei stato, quanto vicini alla morte tu abbia portato i tuoi compagni, annuirai e dirai solo “Sì.” pensando che forse hai un nuovo feticcio perché non ne bastava uno, non bastava quello che incessantemente ti fai ruotare tra le mani, non bastava il cazzo di feticcio che ti ricorda ogni giorno perché sei lì, perché sei finito i quel mondo, non ti bastava.
Ed è ora di infilarsi nel sacco a pelo, forse è la volta che ti si chiuderanno gli occhi.
Forse è la volta che i tuoi occhi si chiuderanno. O si apriranno forse.
Immemori battaglie pt2: “Quindi? Hai deciso?”
di Stefano Giolo 10 Novembre 2016
“Quindi? Hai deciso?”
La persona da cui proveniva la voce lo stava guardando con aria interrogativa dall’altra parte di una scrivania. Lui era immobile, nel suo completo elegante leggermente stropicciato.
“Sì, non è stata chiara la mia risposta?”
Sembrava stupito del sentire nuovamente chiedere in merito alla decisione, era molto sudato ma apparentemente era come se qualunque fatica avesse fatto fosse relegata al di fuori di quella stanza, in una specie di oblio di cose dimenticate.
“Ricordi cosa hai risposto poco fa?” disse la persona dall’altra parte della scrivania.
“Certo ho detto che…” il volto dell’uomo si rabbuiò qualche istante. “Ho detto che…” Una vena gli si gonfiò sulla fronte, pulsava mentre si copriva il volto con le mani scuotendo la testa.
“Cazzo.” aggiunse. “Non avevo detto questo, solo pochi istanti fa ero certo del contrario! Ero sicuro che la decisione più sensata fosse…”
“Quindi? Hai deciso?” ripeté nuovamente l’altra persona.
L’uomo alzò la faccia dai palmi delle mani poco prima di urlare “Che cazzo mi avete dato da bere?”
“Nulla.” rispose la persona di fronte con tutta la calma del mondo.
La vena dell’uomo continuò a pulsare mentre lui rimaneva in silenzio.
Passarono alcuni minuti.
“Allora respirare, qualcosa? Qualche siero della verità?”
“Sei sicuro che sia questa la verità? Che sia la tua risposta definitiva?”
“Cazzo. No. Non è un siero della verità, non lo è perché la verità sarebbe una ed una soltanto, non è un cazzo di siero della verità, cosa mi avete dato?”
“Non ti ho dato nulla. Quello che sta accadendo sta accadendo solo grazie alla tua mente, a ciò che tu pensi. Ma non hai ricevuto nessuna sostanza ne da me ne da nessun altro.” La voce era assolutamente calma e rilassata, forse parlava leggermente a rilento “Ora è il momento di prendere una decisione, non c’è più tempo. Vuoi combattere o arrenderti? Ci credi ancora nonostante tutto o hai deciso che sia il momento di lasciarti andare?”
“Sei tu a controllare la mia mente. Sei tu che devi avere qualche potere, qualche cosa. Mi stai manipolando con le cose che dici” l’uomo sembrava agitarsi sempre di più, il pulsare della vena pareva volerla fare esplodere e le gocce di sudore avevano ripreso a scendere copiose. “Parli in maniera melliflua e mi fai cambiare idea, mi fai sragionare.” batté il pugno sul tavolo.
“Quindi? Qual’è la decisione? Il tempo non è infinito e la fuori molte pedine si stanno muovendo.”
“Fanculo! Non credo di potercela fare! Mi è già stato detto che non ha senso, che non c’è speranza, che non c’è modo di affrontare quella battaglia, chi mi fa fare di lottare per qualcosa che non può che portare alla distruzione?”
“Il tempo sta per scadere, sarà qualcun’altro a decidere per te.”
L’uomo rimase in silenzio, i suoi occhi si muovevano velocemente in tutte le direzioni, cercava un appiglio, una certezza ma la stanza era vuota, non vi erano finestre e non si vedevano gli spigoli delle pareti. Tutto era di un bianco abbacinante tranne la sedia su cui era seduto, la scrivania e la sedia su cui era seduto il suo interlocutore. Vestito a sua volta di bianco.
All’esterno, qualunque cosa fosse l’esterno vi erano voci di persone, chiacchiere, risate.Cercava di isolarne le voci e di capire se qualcuno potesse comunicare con lui. A volte gli pareva di riconoscerne qualcuna, forse erano ricordi. Una frase gli ruotava in testa, gli pareva di vederla scritta, non aveva mai sentito una frase così pesante, schiacciante, pregna di responsabilità. La battaglia forse stava tutta in quella frase, il senso della battaglia, della sua vita stessa stava forse in quella frase e in niente altro. Era il peso che lo portava a cedere e la forza che lo portava a lottare. Allo stesso tempo.
Il ticchettio di un orologio segnava il tempo ed evidenziava il silenzio di quel luogo mentre la persona di fronte a lui lo fissava senza proferire parola.
Passarono ancora alcuni secondi che parvero ore.
“Quindi? Hai deciso?” disse l’uomo.
Immemori battaglie pt1: La fine.
di Stefano Giolo 26 Ottobre 2016
Sembrava quello il giorno.
Dietro di me una vita di scontri, di lotte. Davanti finalmente l’obbiettivo di una vita, di molte vite. Troppe. Lì, in tutta la sua mirabile essenza. Di fronte a me.
Ebbi il tempo di fermarmi ad osservarne l’intera figura e ricordare. Non ero in grado di fare l’elenco di tutti gli uomini, gli amici, che avevo lasciato dietro alle spalle. Delle vite perdute nell’obbiettivo comune di raggiungere questo che ora stavo osservando. Ci provai, provai a ricordare i volti ma mi apparivano distorti, con le bocche aperte o le teste esplose, nei miei ricordi stessi riconoscevo corpi da medagliette o dettagli che ricordiamo solo delle persone importanti. Innumerevoli persone importanti. Ero rimasto solo. L’ultimo era morto pochi giorni prima parandosi di fronte a me un istante prima che qualcosa mi colpisse e venendone colpito al mio posto.
Ho sempre odiato tutto questo, ho sempre odiato le battaglie e uccidere, ammazzare. Avrei potuto dire che avrei dato l’anima per non farlo ma era evidente non fosse così. Alla fine io stesso avevo strappato vite, lo avevo fatto di nemici valorosi e di amici, perché lì in mezzo alla fine sei sempre solo, lo sei anche quando accanto a te c’è la persona che ami di più forse. Ma su questo ero fortunato: l’amore mi era stato strappato tanto tempo prima, mi era stato strappato il giorno in cui era iniziato tutto. Il giorno in cui avevo smesso di avere qualcosa da perdere. Probabilmente è stata questa la mia forza, il motivo della mia assenza di paura: non avere nulla da perdere.
E a quel punto mancava solo un ultimo passo da affrontare. Portavo ancora quel feticcio, da un lato lucido come nuovo e dall’altro rovinato e distrutto quel giorno. Trascinato sull’asfalto. Mi ricordava il bene ed il male, un po’ come una mia versione dello yin e dello yang, molto più prosaica, mi ricordava perché ero in quel campo, quanto di quello che avevo dietro era distrutto e quanto forse il poco che rimaneva davanti fosse la cosa che poteva più somigliare alla luce.
La solitudine. L’aver perso ogni cosa, ogni anima affine, ogni persona della propria vita è una sensazione che ognuno dovrebbe provare. Vivere morti in vita. Non per un giorno, ne per cento, ma per anni dovrebbe essere simulato nella testa di ognuno perché possa capire quanto di bello sta ignorando perché possa imparare ad avere qualcosa per cui lottare pur non avendo nulla da perdere. Non lo provano in molti, per lo più non vi si avvicinano neppure o avvicinandovisi cadono inesorabilmente. Io ero un sopravvissuto, i corpi esplosi, crivellati, morti che chiamavo amici nella mia testa erano invece caduti.
Ero lì. Finalmente. Pronto a… a cosa? All’ultimo attacco. O alla resa. O alla pace. O alla morte. Davanti a me c’era quello per cui da quel giorno avevo iniziato a lottare facendo a pezzi la mia vita con le mine, accoltellandomi pezzi dell’anima e ricostruendo ogni giorno meticolosamente curandomi da solo le ferite.
Ero lì.
Uscii allo scoperto.
Fu un lampo. Mi trafisse qualcosa.
Il lampo non veniva da ciò che mi aveva trafitto ma dalla mia testa, dal dolore lancinante che avevo provato decine di altre volte ma che questa volta sembrava avere un qualcosa di più definitivo. Sembrava contenere tutte le ferite di una vita più un’altra ancora nuova. Caddi.
Mi cedette un ginocchio e caddi a terra non ancora esanime.
Feci in tempo a guardare un’ultima volta nella direzione a cui agoniavo e da quella vidi partire un’oggetto che non potei evitare. Mi resi conto della mia vecchiaia in quel momento, della mia impotenza, del tempo perduto che non sarebbe più tornato. Misi la mano sul feticcio ed attesi che la granata mi esplodesse addosso portandomi via il feticcio e la mano e tutto il resto.
Ora sono qui. Al punto in cui iniziò tutto. Il feticcio ancora tra le mani, su un lato lucido e chiaro, come nuovo, sull’altro annerito come da un’esplosione, graffiato come trascinato sull’asfalto. Lo faccio ruotare sul tavolo, come sempre. C’è un uomo poco distante, è vivo. Credo di esserlo anche io almeno fisicamente. Qual’è la direzione verso cui devo andare? Ho come un vago ricordo di aver appena perso qualcosa, la testa mi rimbomba come dopo un botto, ma so cosa devo raggiungere, l’obbiettivo di una vita. Devo solo trovare la direzione, non ho più nulla da perdere ormai e quell’uomo forse potrebbe essermi d’aiuto.
Mi alzo mentre il ginocchio sinistro ha un momento di cedimento, poi mi incammino verso quella direzione.
Ore sogni
di Stefano Giolo 1 Giugno 2016
L’idea solo che da lì a poche ore, o giorni avrei potuto incontrarne lo sguardo mi tenne sveglio per giorni. Ero consapevole che non sarebbe accaduto niente di diverso dal solito nulla, era il nostro ruolo che ciò accadesse in questo modo. Ma era qualcosa dentro, qualcosa che non avevo scelto. La cosa che faceva sì che incontrassi quello sguardo in un mondo o nell’altro, da una parte o dall’altra del confine onirico. A intervalli regolari. Ed era l’incontrarla di rado a farmi invecchiare in fretta tra una volta e l’altra pur di accelerare i tempi.
Non fu che un giorno normale, forse più lungo, forse più silenzioso. Veloce e forte sentivo il mio battito nel vuoto tra le clavicole come a rimbalzare. Fu un giorno come non poteva non essere.
Come non poteva non essere, e nulla più.
Avrei voluto ogni istante poter entrare nel suo mondo. Incontrarla ancora nel suo mondo e scoprirlo vicino o lontano dal mio. Conoscerne sfaccettature che non conosco, amarlo od odiarlo. Avvicinarmi o fuggirne. Esaminare l’ascendente che nonostante tutto continua ad avere su di me.
Ma era un giorno come un’altro, come ce ne saranno ancora. Come ce ne sono già stati. Solamente un giorno, un momento, un nulla.
L’idea solo che da qui a pochi giorni, potrò reincontrarne lo sguardo mi tiene sveglio da giorni, o forse anche ora sto sognando e tutto questo è solo l’immagine del libro che ho chiuso prima di sdraiarmi.
La torre.
di Stefano Giolo 19 Maggio 2016
Esiste una torre lontana, odiata da tutti, odiata dalla tua genia.
Si staglia contro il mondo con sfacciata inutile superiorità.
Esiste una torre lontana, visibile da ogni landa di questa terra stanca in cui il mondo è andato avanti.
La sorveglia dall’alto, ridendo con i suoi occhi rossi.
La sorveglia dall’alto, irridendo con i suoi occhi rossi.
Ma io la amo quella torre.
Non per ciò che rappresenta ma per ciò che mi rappresenta.
Il luogo lontano verso cui guardare e sapere che tu esisti, che sei lì, che lotti, che lotterei accanto a te.
Il luogo lontano, all’orizzonte verso cui guardare per cercare la forza che vive ai suoi piedi.
Chiedimi ancora una volta delle scelte che ti sembrano pavide.
Chiedimi ancora il perché.
Fammi le domande giuste e non ascoltare le risposte.
Guardami solo negli occhi.
Guarda questa luce.
Contiene ogni risposta, ogni coraggio.
Ogni perché.
Lo scorrere del tempo
di Stefano Giolo 9 Maggio 2016
“…e poi comincerà a sentire le palpebre pesanti, sempre più pesanti”
“uno”
“due”
“tre”
Un orologio. Un orologio da taschino.
Si muove a destra e sinistra, lentamente. Lo vedo accelerare quando scende e rallentare fino a fermarsi qualche istante quando sale. Prima da un lato e poi dall’altro.
Troppo lentamente per essere credibile.
La lancetta dei secondi non si muove.
“quattro”
L’orologio è rotto, segna le sette e diciannove.
Oscilla. Continua nel suo moto imperturbabile.
Lento. Lento e mosso da una catenella in bronzo brunito.
Lento. Lento e mosso da una mano in un guanto di pelle bianca.
È rotto l’orologio. Segna le sette e diciannove.
“Cinque”
È un coniglio.
È un coniglio bianco a reggere l’orologio. Indossa un panciotto.
Sorride e mi guarda il coniglio bianco. Da sopra quel panciotto elegante.
Mi guarda.
“Sei”
Devo fuggire. Non guardarlo.
(Non guardarti).
Devo fuggire mentre l’orologio si ferma qualche istante a destra del suo volto e scende.
-Sette e diciannove-
Fermo.
E si muove accelerando.
“Nove”
Non mi sta più guardando il coniglio bianco, nel suo panciotto, nei suoi guanti.
Non mi sta più guardando il coniglio bianco.
Ha voltato la testa il coniglio e guarda di lato.
C’è un albero piantato in mezzo al prato.
C’è un albero piantato in mezzo al prato.
E sotto l’albero un buco, una tana.
C’è un albero piantato in mezzo al prato.
“Dieci.”
nel tempo
di Stefano Giolo 29 Febbraio 2016
Era mentre osservavo quegli occhi, i tuoi, i suoi, quelli di Lei che sta accadendo, proprio ora mentre osservavo nei tempi antichi la loro luce, e mentre stava accadendo come un fiore la mia corolla si apre, lentamente i petali si stanno schiudendo e lasceranno entrare questa luce che sta scaldando il mio corpo, illuminando l’interno del mio corpo, scaldando quello che era il mio corpo, la mia mente schiusa alle emozioni che non avevo mai incontrato prima. Fu quel giorno che amai l’ansia, che amai il battere forte del cuore in gola ed i tremori e il non sapere quale direzione prendere, l’inadattezza di vivere che solo oggi ho visto per la prima volta e che amai da allora, come amai la paura, il terrore nei miei occhi che guardano i tuoi occhi, il tremore dei miei occhi che guarderanno i tuoi per la prima volta guardare i miei. Ed è per questo che amerò il non sapere cosa fare, amerò il non aver saputo scegliere quando il mondo mi fu avverso e il desiderio di fuggire, e il cadere e la tristezza che mi ha provocato e che il mondo porta sulle spalle, perché tutto questo è vita, e ringrazierò mille volte i suoi occhi severi quando mi sgridarono e guarderanno con sdegno. Tutto questo è vita, tutto questo è ciò che mi ha fatto incontrare quegli occhi e quegli occhi furono ciò che amai, ed è mentre gli osservavo che tutto inizia.
Ora
di Stefano Giolo 21 Febbraio 2016
Non avevo mai compreso fino a quel momento ciò che mi dicevano degli uomini, non avevo mai compreso fino a quel momento ciò che volesse dire umanità. Ero giunto in questo mondo per vie che voi non comprendereste, ero giunto in questo mondo per mezzo di ciò che voi chiamereste dolore, di ciò che voi definireste sofferenza. Non le conosco, non ancora, queste cose, non mi appartengono questi termini. Ero giunto in questo mondo come ognuno giunge al proprio, un istante prima non esistevo, il successivo ero qui con una storia davanti ed una dietro, un puntino in movimento su di una linea infinita pronto ad andare avanti nel tempo e non tornare mai indietro. Come tutti voi.
Avevo sentito i vostri cuori battere e visto i vostri occhi inumidirsi, avevo sentito parlare di cose che non comprendevo, avevo sentito dire che la mia storia era triste, che ero forte, che sentirla e vedere qualcuno superarla rendeva felici ma non conoscevo queste parole, non avevo mai vissuto nulla di ciò che sentivo raccontare. Non avevo mai compreso il significato intrinseco dei gesti, del cingere persone con le braccia o del guardare negli occhi.
Solo un giorno d’improvviso fu come entrare davvero in un corpo o come se una pelle si togliesse, fu come sentire qualcosa di stretto infilarsi caldo sul corpo o di freddo sfilarsi.
Fu guardando il tuo sguardo ma non fu quello sguardo, sembra un tempo remoto ma mi guardo indietro ed è accaduto oggi, solo poche ore fa, pochi minuti, sta accadendo ora, in questo esatto momento, adesso. Ed è un’abbraccio, ed è un bacio ed è il caldo ed il freddo, il cuore che batte, trabocca, il cielo dentro e la testa che non può contenere ogni cosa e vortici e il silenzio e la musica e non importa il dopo, il domani, il tra poco, sia quel che sia ho provato questo infinitesimo istante.
Sono a casa.
Achille
di Stefano Giolo 17 Ottobre 2015
Fu così che infine scelse di pugnalarsi nell’unico punto in cui il suo corpo era vulnerabile, non lo fece per morire, ne scelse di voler soffrire per punire una propria scelta od errore.
Si pugnalò nell’unico punto in cui avrebbe potuto creargli dolore, forse morte, e scelse di farlo accanto ad una persona che conosceva appena, una persona di cui aveva però piena fiducia.
“Questo è il più grande dono che possa farti” disse.
“Questo è il dono della conoscenza di ciò che sono, il dono della mia stessa esistenza”
Fu così che scelse di porgergli l’elsa dell’arma.
“Questo è il più grande dono che possa farti” disse.
“Non importa cosa sceglierai di farne”.
Fumo
di Stefano Giolo 15 Ottobre 2015
“Ricorda di quando iniziò ad avere queste fantasie?”
Fantasie?
“Si, omicidi morti, cose di questo genere”
Io non ho di queste fantasie, e soprattutto non vedo perché dovrei averne, al limite ho fatto qualche sogno, poco altro.
“Bene, ricorda quando è iniziata questa sua ossessione, questa serie di sogni, questo suo pensare alla morte di donne?”
Non credo di esserne ossessionato, nel modo più assoluto, mi capita qualche volta di pensarci, si come può capitare di pensare nuda una bella donna che passa, ma non direi di esserne ossessionato o dipendente, io sono uno che sta ben alla larga dalle dipendenze e cose simili, sto lontano dalle droghe, dal fumo, dall’alcool, si qualche birretta a volte tuttalpiù, ma niente di che.
“Cosa le viene in mente pensando parola ossessione?”
I fumatori.
“Lei si sente ossessionato dai fumatori?”
No, i fumatori sono ossessionati dal fumo
“Provi a parlarmene”
Li guarda mai? Sembra come se la presenza stessa del fumo li attorni, come chiocciole che si portino dietro il propri guscio, loro si portano dietro il fumo, l’alone di puzza, il bisogno di fumare, la sigaretta in tasca sempre pronta e se non lo è la comprano o la rollano ossessivamente, continuamente. Il loro bisogno di uscire ogni ora a respirare da quel loro rotolino di morte, di respirare la morte passo passo, piano piano, ogni giorno più e più volte, e ogni volta ancora non ne sono soddisfatti. Sa, da piccolo ho letto Momo, di Michael Ende, non so se ha presente, mi sono rimasti impressi nella testa, proprio dentro, tatuati i personaggi cattivi: degli uomini grigi che si nutrivano del tempo sottraendolo alle persone, uomini in giacca e cravatta e con la valigetta, ma soprattutto uomini con il sigaro. Il sigaro e fatto con le foglie -o i petali non ricordo- del tempo essiccati ed arrotolati, ne erano talmente dipendenti da dover fumare ogni istante e dover accendere un sigaro ogni volta con quello che stava finendo. Lo vedo così il fumatore. Mi sembra come un malato bisognoso di una flebo, incapace di viverne senza ma come se la flebo fosse contemporaneamente veleno e piacere, lo vedo come una persona sopraffatta dal bisogno impellente di assumere qualcosa di esterno per riequilibrare qualcosa di interno, quasi come se non lo assumesse il cuore dovesse esplodere o il cervello spegnersi. Lo vedo come un malato che non si rende conto di essere malato, come uno zombie che non si sia reso conto di essere morto, lì attaccato a questa sua sigaretta a credere di aspirare la vita mentre è il fumo ad aspirarla via. Non credo di saperne rendere l’idea fino in fondo ma penso al fumo che invade i bronchi come a veder fumare l’uomo invisibile e questo fumo entrare poi nelle vene e dalle vene entrare nel cervello, negli organi e colonizzarli, colonizzane i desideri come un parassita, mille parassiti, milioni di parassiti che necessitino di nutrirsi ancora con una nuova boccata e vedo il fumatore ignaro, incapace di capire come ognuna sia un darsi ulteriormente a questo demone. Vedo il corpo marcire dentro partendo dai polmoni ed irrorando il marcio a raggiera seguendo le vene e via via fino ai capillari e mentre vedo il corpo marcire li vedo attaccati a quel bastoncino fumante come se non fosse capace di staccarsi, mi sembra uno di quei topi a cui hanno dato un tasto che stimola il piacere e che muoiono di fame a forza di stare a stimolare quello, come una lumaca attratta dal sale che a poco a poco si scoglie ed ho la consapevolezza che non servirà a nulla dirglielo, farglielo notare, perché otterrebbe lo stesso scopo.
“Quindi li vede senza speranze in qualche modo?”
Si, anche se alcuni si salvano o sopravvivono a lungo.
“Capisco, ed invece come vede le donne? Come è il suo rapporto con esse?”
Non credo valga la pena parlarne, non credo che abbiano questa importanza da doverne discutere, no?
“Eppure in questi incontri lei me ne ha parlato spesso, ha spesso parlato di fantasie che le riguardano”
No, non credo lo siano. Non credo siano fantasie quantomeno.
“Cosa sono se non sono fantasie?”
La seduta è finita.
“Cosa sono se non sono fantasie?”
La seduta è finita.
“Ritorneremo sull’argomento alla prossima seduta”
Attese
di Stefano Giolo 6 Ottobre 2015
Cosa ci faccio qui seduto su questa panchina? La ricordavo diversa, ma non la ricordo davvero. Le mie mani sono mani di un vecchio, tremano, mani spoglie e rugose con una fede al dito, le vene ingrossate e le dita ossute, magre con nocche nodose quasi come noci.
La panca su cui sono seduto è di metallo verde, credo sarebbe scomoda con i calzoncini da bimbo con tutti quei buchi ma io la ricordo di legno. Era appena stata inaugurata questa stazione dei bus ed io qui aspettavo mano nella mano con mia madre per andare verso la scuola nel paese vicino.
Non c’era la paura di oggi, ci lasciavano andare e sapevano saremmo tornati, allora non c’era la paura. Poi crescendo iniziai a venire qui da solo da casa senza che mi accompagnassero, sedevo sempre qui di fronte alla porta perché mi piaceva osservare le persone entrare, perché mi piaceva immaginare, indagare nelle loro vite o nei miei sogni che attribuivo a loro, mi piaceva gustarmi ogni istante di chi arrivava a volte trafelato e sudato per prendere un biglietto e fuggire via come il vento, o chi sognante si sedeva sulla panca in attesa di un bel momento, un bel luogo verso cui andare. Qualche volta mi capitava di vedere una donna o un bimbo piangere e cercavo di immaginare cosa ci fosse dietro quel volto, quale fosse la storia.
Non accadde da subito, non dalle prime volte, iniziai a pensarci solo dopo quella volta della porta misteriosa.
Sedevo sempre qui. Sulla parete alla mia destra già allora vi era questa mensola e dietro la mensola attraverso una finestra la signora dei biglietti chiacchierava e chiedeva e chiacchierava e chiedeva e chiacchierava ed io la ascoltavo ed ascoltavo le storie, i ricordi, le emozioni delle persone mentre osservavo chi sedeva sull’altra panca giusto sotto gli orari. Le ascoltavo all’epoca non mi veniva in mente di cercarle, di immaginarle, di scavare tra i lineamenti i colori dei vestiti, le espressioni delle persone ignare.
Entra una signora, ora. Porta i capelli lunghi raccolti in una lunga coda ed ha un grande cane bianco, non me ne intendo di cani ma sembra come quello delle pubblicità della carta igienica solo più grande. Sembra affettuoso e lei è distesa e sorridente. Porta un vestito grigio/marrone ma in qualche modo allegro, ricco di movimento, la maglia è morbida e larga e le maniche corte sono a sbuffo e così anche la parte attorno al seno e il collo, la gonna lunga la fa sembrare quasi una donna dei miei tempi, così larga a pieghe morbide. Fa il biglietto alla macchinetta –Dio quanto era bella la signora dei biglietti quando ero piccolo e chissà che fine avrà fatto, la sua finestra ormai è chiusa da anni– è così giovane, nel fiore dell’età la immagino felice in questo inizio estate avrà appena finito gli studi e starà andando in collina a ridere e correre con il suo cane e magari con un ragazzo. La immagino con a casa una vespa del modello vecchio, bianca e con i girasoli, non so perché debba prendere il bus se ha una vespa ma probabilmente è per portare il cane con se. La sua aria distesa distende a mia volta la mia anima mentre si siede giusto sotto la bacheca e si accorge che la sto guardando ti accorgesti che ti stavo guardando, non credo avessimo più di dodici anni e il mio sguardo schizzò sulla bacheca all’improvviso fingendo di non starti osservando. Rimasi qualche minuto ancora ad osservare i foglietti appesi sotto quel vetro mentre con la coda dell’occhio cercavo di osservare il tuo volto, il tuo profilo, cercavo di spiare se mi guardassi, di scorgere un lieve rossore, un segno, un sentore. Di non lasciarti scorgere il lieve rossore che sentivo divamparmi dalle orecchie.
Il bus arrivava sempre troppo presto e tu salivi correndo e ti sedevi accanto al tuo gruppo di amiche, io ti osservavo ancora un istante mentre salivo ed andavo a sedermi lontano in attesa di essere trasportati verso scuola.
La porta accanto alla “tua” panca mi era sempre parsa misteriosa. Nei miei sogni poterla aprire era il più grande desiderio, paura, gioia, terrore che potessero esistere. Immaginavo dietro di essa ogni volta un mondo diverso ma sempre in qualche modo misterioso, immaginavo talvolta che fosse solo uno sgabuzzino, altre volte che fosse l’accesso ad una vasta cantina che poteva nascondere di volta in volta incredibili tesori, segreti, delitti. Talvolta credevo vi si nascondesse tutta una base segreta dei militari o l’accesso ad un mondo sotterraneo, o ancora l’ingresso ad un treno sotterraneo o verso l’interno del caveau di una banca, credevo né potessero uscire mostri o agenti segreti o diavoli direttamente dall’inferno o gli antichi egizi.
Di volta in volta, qualcosa di più bello e fantasioso. Passarono anni credo da quando iniziai a fantasticarvi a quando potei scoprire l’ovvia verità.
Una volta quando mi capitò di essere lì da solo, mi alzai e furtivo mi ci avvicinai a quella maniglia sempre fingendo di osservare gli orari, rimasi immobile e teso diversi minuti prima di prendere finalmente il coraggio, ma poi infine trovai la forza di posarvi la mano quasi temendo di ustionarmi o congelarmi o che sarebbe accaduto qualcosa di terribile, che si sarebbe aperta all’improvviso verso l’interno risucchiandomi in un luogo di paura o in un’avventura alla Tom Sawyer. La abbassai il più possibile lentamente ma mentre la sentivo cigolare sentii urlare “Hei ragazzino!”. Finsi di stare perdendo l’equilibrio e di essermi appoggiato solo per quel futile motivo e mi allontanai di corsa.
Ebbi però una soddisfazione, un piccolo passo verso la conoscenza: ora sapevo che la porta era chiusa a chiave e che la signora dei biglietti ne era l’inflessibile guardiana. Lei doveva sapere cosa vi fosse dietro, doveva essere a conoscenza del segreto.
Ho dimenticato tanto nella vecchiaia, mi sembra di perdere pezzi per strada e di non ricordare la mia stessa vita, avrei voluto saperne scrivere, non perché gli altri leggessero ma per poterla leggere io ora e ricordarmi ogni dettaglio come ricordo oramai solo quelli più lontani. Forse per questo sono tornato qui, mi sono come risvegliato qui seduto.
Quella macchia accanto alla porta. Quella macchia accanto alla porta, non quella scura fatta dall’usura dallo scrostamento dell’intonaco, quella più chiara che sta sotto. Ricordo ancora quel giorno in cui Marchetto fu spinto dai bulli contro la parete.
Marchetto era un ragazzino mite e un po’ sottomesso ed era il preferito dei prepotenti, era il preferito perché si offendeva ma non poteva rispondere, perché era buono e non si sapeva difendere. Non quella volta. Quella volta li vidi arrivare dal corridoio di sinistra, schivarono per un soffio la panca dove ero seduto, Marchetto sbatté contro la panca a destra e dopo aver appoggiato il sedere alla stessa si rialzò arrancando verso la porta a vetri; i tre gradassi invece lo spinsero di lato e andò a sbattere giusto contro lo stipite sinistro. Era in lacrime ed urlava “lasciatemi stare, non vi ho fatto niente, lasciatemi stare!”. In mano aveva uno dei primi succhi di frutta Yoga, probabilmente era stato questo ad attirare su di lui le ire dei compagni. Riuscì miracolosamente a divincolarsi dalle le braccia degli aggressori e in un incredibile impeto di rabbia scagliò contro di loro la bottiglietta che andò a fracassarsi giusto in quel punto sporcando quella parete. Lo vidi aprire la porta e correre, scappare fuori e poi li vidi rincorrerlo un istante prima che tutti uscissero dal campo visivo che la porta mi lasciava a disposizione mentre si chiudeva.
Non so come sia finita perché io ero seduto sulla solita panca ed osservavo il mondo intero da lì. Me lo immaginai a correre e correre come un forsennato e poi girarsi di scatto poco prima che lo raggiungessero per stenderli con un bel pugno sul naso. Un bel pugno a testa e poi fermarsi con le mani ai fianchi a contemplare la propria opera. Non credo andò esattamente così, qualche giorno dopo lo incontrai ed aveva al braccio un gesso e portava dignitosamente un occhio pesto.
Mentre fantasticavo su questo però ero rimasto seduto sulla panca e nel mentre accadde l’inaspettato, l’incredibile. Sentii ancora una volta urlare “Hei Ragazzino!” e poco dopo sentii netto il rumore di una serratura. Istintivamente voltai lo sguardo prima verso la finestra della vendita dei biglietti e la vidi per la prima volta senza la sua signora e subito dopo verso la porta misteriosa.
Mi parve come se il tempo si fermasse o rallentasse all’estremo.
Vidi la maniglia scendere di pochi millimetri, la vidi ritornare al suo posto e poi nuovamente la inclinarsi sempre di più fino a fermarsi, come se il cigolio fosse lungo minuti, ore anni tra l’inizio del movimento e la fine della sua corsa.
Rimase ferma un secolo o due e poi la vidi avanzare un po’, rientrare e nuovamente avanzare con tutta la porta. Vidi la fessura tra la porta e lo stipite aprirsi e vidi da dentro la luce artificiale formare da prima una linea sul pavimento e poi la linea allargarsi e divenire un cuneo. Non credo vi fosse sufficientemente buio perché la luce dalla stanza risaltasse così tanto ma nella mia mente era la luce del paradiso o dell’inferno o di entrambi, la luce di un altro mondo.
Quando la porta fu aperta abbastanza ebbi la sorpresa.
Non sapevo se essere deluso o stupito o entrambi. Dalla porta non spuntò un mostro e neppure il re, e neppure il diavolo o Gesù, dalla porta spuntò la signora dei biglietti con in mano uno straccio ed uno spruzzino.
La signora dei biglietti con in mano uno straccio ed uno spruzzino! Ed aveva le gambe ed un corpo! Non mi ero mai posto prima il problema del fatto che potesse avere delle gambe ed un corpo sotto le spalle e mi accorsi solo ora che le avesse, che fosse una signora come quelle che prendono l’autobus, come quelle che camminano per strada, che dovesse tornare a casa la sera, avere forse dei figli un marito, una vita. Mi cambiò molto questo fatto. Capii allora che tutte le persone hanno dietro una storia, hanno dietro qualche cosa che non si può sapere, e pensai a tutto questo mentre cercava invano di far andare via quella macchia di succo ottenendo solo il risultato di allungare la striscia e sbiadirla un po’.
Anche oggi quando vedo un ombra arrivare ad oscurare il vetro della porta aspetto con ansia di vedere la sua mano raggiungere la maniglia all’esterno della porta centrale, di vedere la maniglia abbassarsi, di vedere il cuneo della luce sul pavimento ed in esso il riflesso della persona che sta entrando, quasi con lo stesso stupore della volta che si aprì invece la porta misteriosa. Questo è un signore distinto di mezza età, ha in mano un libro, il suo portamento è quello di un uomo che ha vissuto molto ma anche quello di uno che ha ancora molto da vivere. Sicuro di se ed al contempo umile. Fa un cenno alla ragazza col cane e si siede sulla panca di fronte a leggere con le gambe accavallate. Credo che questo sia il suo momento di rilassamento, il momento in cui con soddisfazione può leggere in pace forse tra una giornata di lavoro e il rientro in una famiglia piena di ragazzini allegri e rumorosi, deve averne più di uno perché sembra benestante ed ha il volto di un brav’uomo. Di certo almeno uno perché quella macchia di cioccolato all’altezza del ginocchio, di lato, sembra essere la bocca di bambino felice.
Porta scarpe eleganti come quelle del controllore che ogni giorno saliva sul bus e ci controllava i biglietti. La prima volta che qualcuno di sconosciuto mi rivolse la parola fu proprio lui “Ti piace proprio tanto quella ragazzina, vero? Perché non ti fai avanti?” disse. Io negai tutto ma aveva ragione, seduto lontano alcuni posti più dietro e sull’altro lato ti osservavo incantato, osservavo il tuo profilo dolce e la tua gota sinistra mentre ridevi con le tue amiche parlando di cosa non so. La osservavo gonfiarsi e sgonfiarsi, osservavo la fossetta crearsi e ricrearsi, riuscivo a vedere anche i bianchi denti talvolta.
Era come un sogno, e parlarti era come interromperlo, e poi parlarti come, dicendoti cosa?
Ti scrissi un bigliettino, non ricordo le parole, sono passati decenni, ma ricordo ancora dove lo misi: sotto la bacheca, poco più a destra del centro vi era una fessura tra il muro ed il legno, giusto sopra a dove in genere ti mettevi. La vedo ancora da qui seduto quella fossetta, il mio scrigno del grande sogno, sperai per giorni che lo notassi, sperai per giorni che facesse da ambasciatore, da colomba, da messaggero. Ma non accadde mai che ti accorgessi della sua presenza. Non ero sicuro neppure che davvero mi avessi mai notato quando avevo l’impressione che i nostri sguardi si incrociassero.
Poi non ricordo molto altro di quel tempo, come se anche questo sia stato cancellato, non ricordo per quanto andai avanti in quel sogno.
Fu solo molti anni dopo, quando ti incontrai, quando ci incontrammo di nuovo e ci amammo che ti portai a prendere quel foglietto e a leggerlo per riderne assieme, ma la tua reazione non fu quella che mi aspettavo.
Stavamo assieme da un po’, non ricordo quanto tempo e tu non credevi che il mio pensiero di te durasse da ormai anni, credevi ti prendessi in giro, fu per questo che ti portai qui, in questa piccola stanza di questa stazione e una volta arrivati alla bacheca ti chiesi di guardare sotto, di vedere il piccolo pezzetto di carta incastrato nella fessura, niente di più di un biglietto del bus con sopra una scritta. Io ridevo, lo trovavo divertente ma poco dopo che le tue dita tastarono la carta e riuscisti ad estrarre ed aprire quel messaggio la tua reazione fu completamente diversa da quella che mi aspettavo: scoppiasti in lacrime abbracciandomi come fosse stata la rivelazione più grande di tutti i tempi, lacrime di emozione, di commozione, di amore immenso scaturito come cascata dal tuo volto. Sentii il calore del tuo respiro sul lato del mio viso e la morbidezza del tuo corpo stringermi forte, sentii le tue lacrime scorrere sulla mia guancia, il profumo del sale e della tua pelle e “Grazie, grazie, grazie”. Fu la prima volta che ti sentii pronunciare le parole “ti amo” la prima di una vita che però sta cadendo a pezzi momento per momento.
Li sto perdendo tutti, li sto perdendo tutti i ricordi di te se non quelli legati a questa panchina e a quel giorno in cui piangendo mi abbracciavi e quell’altro giorno in cui ci hai lasciati. Non ricordo il momento in se, non ricordo il giorno ma l’assenza successiva. La mancanza. Per anni, decenni hai portato al collo una medaglietta con dentro il mio bigliettino, quel giorno -da quel giorno- l’avevo io in mano, una mano non ancora vecchia come quella di oggi ma ancora più tremante. Una medaglietta e due o tre ricordi sono l’unica cosa che mi resta di te, l’unica cosa che resta di te se di noi quello che resta è il ricordo.
L’ho ancora al collo ora. Non l’ho mai aperta, come la porta misteriosa ho sempre temuto ne uscissero mostri, ricordi terribili per quanto belli, ricordi che mi facessero precipitare nell’abisso dentro di me, ricordi che mi facessero sorridere e rimpiangere di essere ancora qui dopo tutti questi anni. Ma non è forse di ricordi che sono in cerca ora? Non è forse per i ricordi che il mio corpo in un momento senza mente ha voluto portarmi qui?
L’assenza. Come è possibile ricordare un’assenza ancor più di una presenza? Una mancanza ancor più che un’intera vita?
Osservo le mie mani tremanti mentre si avvicinano al mio collo, mentre armeggiano per trovare la catenella. La temo e la bramo, ne fuggo e ne desidero la scoperta e mentre le mani tremano la sento cadere e sbattere nuovamente sul mio petto, poi di nuovo le mani a muoversi quasi ansiose quasi non fossero le mie quasi a vederle osservando il mondo da fuori da seduto su una panca di una stazione mentre ti passa accanto.
Sono vecchie le mie mani, tremanti e vecchie e secche mentre premono il tastino sul lato e la aprono
Armeggiano e mentre il pendaglio si apre vi vedo dentro due piccoli foglietti.
Le mani ne prendono uno e lo aprono, lo conosco, è un biglietto dell’autobus, un biglietto vecchissimo e sopra vi è scritto “Ciao, mi piaci. Se mi vuoi conoscere domani vieni qui con un fiore!”.
Sento scendere una lacrima lentamente mentre osservo le mie mani ancora. Hanno ripiegato il foglietto ed una lo tiene tra l’anulare il mignolo e il palmo mentre entrambe stanno aprendo l’altro. Un altro biglietto dell’autobus, vecchio ma non antico.
“Non avere paura, ti ho cercato amato e conosciuto anche senza un tuo messaggio, dove vado io non c’è bisogno di ricordi, né di paure”.
Vedo un ombra avvicinarsi ora ad oscurare un po’ il vetro della porta da fuori, è un ombra bassa di una ragazzina, la vedo alzare il braccio verso la maniglia e vedo la maniglia abbassarsi senza fare alcun rumore. Vedo anche la maniglia non abbassarsi e mentre osservo la porta aprirsi so che non si sta aprendo affatto.
La vedo lo stesso, la vedo entrare la bambina od attraversare la soglia chiusa, cammina verso di me e ne osservo l’assenza di un riflesso sul pavimento. Sorride, sorridi.
Hai un fiore tra i capelli, un fiore di lavanda, e mentre mi alzo dandoti la mano mi accorgo che anche io sono un bimbo.
Mathilde
di Stefano Giolo 12 Settembre 2015
La sua infanzia non fu delle più felici, non che le mancassero gli affetti, i giochi, gli amici, non che la sua famiglia fosse particolarmente povera o disattenta, la causa scatenante fu certamente un evento della durata di poco più di quindici minuti, una frazione di questi quindici minuti durata forse non più di dieci. Una visione sola di un solo istante e di nuovo tutto ciò che ci sta attorno dilatato nuovamente in quello che significavano quei quindici minuti ed infine verso tutto il resto della vita a partire dal centro del tempo, del corpo, dell’energia, dal centro dello stomaco. La sua nascita fu semplice e veloce e in breve si trovò tra le braccia di una mamma medio borghese e di cultura abbastanza alta e quelle di un padre altrettanto medio borghese ma di una cultura ben più elevata, una famiglia ricca sia del tempo che delle sostanze, una famiglia accogliente e di sani principi, quasi da film americano. Non sempre però è tutto questo quello che serve ad una figlia per crescere o non sempre tutto questo può rimanere il tempo giusto per darle il tempo di conoscere il mondo ed abituarvisi. Crebbe come una bimba felice e sorridente, lo fu sempre in ogni fase della sua vita ad eccezione di quella fase dell’adolescenza che quasi tutti passano, la fase degli scontri generazionali, della ricerca dell’identità, e della fuga da qualcosa che in lei risultava irrisolto ed incomprensibile. Dimenticato e al contempo indimenticabile. Quest’ultima, la presenza costante di un mostro, per fortuna della maggior parte delle persone non è una fase fondamentale, ma fu questa probabilmente la cosa che la rese ciò che fu, nel bene e nel male. Nella forza e nella debolezza qualunque delle due parti fosse l’una e qualunque l’altra. Erano tempi di un passato quasi fiabesco in cui ancora i ritmi erano blandi, in cui per comunicare si usavano lettere di carta, telefoni con i fili, tempi in cui era necessario essere in casa per ricevere una telefonata ed aspettare per ricevere risposte scritte, tempi in cui si comunicava a parole e discorsi e non a faccine ed abbreviazioni. Suo padre però aveva la consuetudine pochi istanti prima di tornare a lavoro di alzare la cornetta del telefono e fare il numero di casa, un singolo squillo e da quel momento partiva il tempo. Mathilde da quell’istante contava quindici minuti esatti, non uno di meno e non uno di più e poi correva alla porta ad attenderlo, puntualmente sentiva le chiavi appese alla cintura di suo padre tintinnare su per le scale, fino a davanti alla porta, poi nuovamente tintinnare più forte e la serratura girare, la porta aprirsi e poi vedeva spuntare quelle grandi manone forti e la pancia tonda ma non grande sovrastate da due spalle grandi e lontane lontane lassù in alto e più in su ancora la sua barbuta faccia allegra che si avvicinava scendendo, abbracciandola e dandole un bacio grande sulla fronte. Quella volta accadde qualcosa di diverso. Quella volta suo padre doveva passare a prenderla per portarla al compleanno della sua migliore amica e lei era vestita a festa, il vestito intero azzurro e rosa con la gonna poco sopra le ginocchia, la schiena un po’ scoperta e le braccia completamente. Di profilo un po’ di seno iniziava a spuntare in un misto di apprensione e di aspettativa, sentiva di stare crescendo di fuori ma si sentiva ancora bimba dentro ed il rossetto un po’ vistoso e le unghie con lo smalto colorato di colori vivaci aumentavano questo contrasto in modo visivo e lo facevano uscire dalla sua testa per concretizzarsi. Non avrebbe mai più indossato dello smalto colorato, né un rossetto forte, ne molti altri dei trucchi che ne modificavano la gioventù e la facevano essere quasi adulta e al contempo bimba ma non avrebbe ricordato per anni il perché di questa scelta inconsapevole. Quella sera i quindici minuti passarono in fretta, come se l’orologio corresse, come se il mondo precipitasse in fretta verso una singolarità nel tempo e passata quella al contrario parve dilatarsi, rallentare, rallentare fortissimo e disperdersi. Poi squillò il telefono, squillò di nuovo mentre mamma si avvicinava lentamente come già aspettandosi qualcosa, bianca in volto “pronto”, disse. E niente altro per un tempo interminabile e poi “va bene”. Si vestì in fretta, senza dire nulla, con il volto come congelato, immobile, inespressivo. La spinse dolcemente ma risolutamente in macchina e la portò alla festa. Attese qualche istante dopo che la porta della casa che ospitava la festa fu chiusa ma non abbastanza perché l’urlo non si sentisse sopra al rumore del motore dell’auto accesa, sopra la musica e le urla dei ragazzini, non lo sentì quasi nessuno, tranne Mathilde che lo dimenticò secondi o anni dopo. Suo padre non era più. Vi era da qualche parte un corpo privo di una mente, di un’anima, di una personalità, un corpo spento che non poté più abbassarsi a stringere, né a baciare ma non le fu concesso di saperlo, non le fu concesso di salutarlo, non le fu concesso nulla di quello che forse sarebbe bastato a salvarla. Qualche ora dopo la madre tornò a prenderla. Dal suo punto di vista l’aria degli adulti era particolarmente mesta, non solo quella di sua madre ma quella di tutti indistintamente; aveva passato la festa mangiando per non parlare con gli altri, per non dover spiegare perché non avesse voglia di giocare, per non spiegare che era offesa perché era accaduto qualcosa e nessuno aveva avuto la decenza di spiegarglielo ed ora tutto quel cibo pesava nel suo stomaco come un macigno enorme mentre nella conferma di uno stato alterato del mondo la sacca si stringeva in un pugno. Sua madre la portò a casa e dopo averla lasciata in camera si chiuse a sua volta nella propria nel silenzio. Non disse una parola per tutto il tragitto, non disse una parola in casa mentre la casa stessa era come un enorme cuscino schiacciato sulla faccia della vita che era esistita fino a quel momento. Solo un tempo lunghissimo più tardi bussò alla porta e disse “Mathilde, ti devo parlare, è successa una cosa a papà” le raccontò una favola come la si racconta ai bambini, le raccontò che suo padre se ne era andato via e che non sarebbe tornato mai più. I bambini non temono la morte, i bambini hanno piena coscienza della morte del cessare di esistere e lo vivono come un fatto naturale, triste ma naturale, è tutto ciò che gli adulti vi costruiscono sopra a creare il problema e questo fu il suo personale di problema, il suo specifico, enorme personale problema, non il fatto che suo padre non sarebbe tornato. Non il fatto che suo padre avesse cessato per sempre di esistere. Il mondo era improvvisamente divenuto falso. Il mondo stava improvvisamente mentendo. Ascoltò sua madre parlare e piangere e parlare ancora e giustificarsi per cose inesistenti e piangere ancora fino a quando concluse “C’è pronto da mangiare. Ti va di mangiare qualcosa? Non mangi da un po’. Vai a lavarti le mani”. Annuì e il suo stomaco ancora pieno, bloccato si strinse fino a divenire una nocciolina. Si alzò e andò in bagno: fu questo il momento. Questo e nessun’altro. Lo stomaco orma pieno, bloccato, cementificato volle svuotarsi e lei si chinò a vomitare nel gabinetto, in un misto di schifo e liberazione, di sofferenza e di gioia, di acido e liberatorio. Si pulì la bocca con la carta igienica e per un istante si fermò dicendo “Mam…” e poi pensò che forse sarebbe stato peggio per entrambe. Fu la prima volta che si sentì grande, fu la prima volta che ebbe il sentore che avrebbe dovuto cavarsela da sola nella vita. Ma il momento nel momento, il momento chiave di tutti i momenti fu quando allungò la mano, prese distinto l’asciugamano di suo padre e vi pianse dentro. Quando l’odore della pelle misto al dopobarba entrarono dritti nel suo cervello, entrarono come un colpo di pistola, come una penjet di benzodiazepine diretta nell’ippocampo e le lacrime di rabbia, di impotenza, di gioia sgorgarono contemporaneamente come in un fiume di emozioni. Suo padre sembrava ancora lì, ancora presente, era in definitiva davvero parte di lui e attraverso i polmoni entrava in lei. “Mathilde! Dai è pronto!” era lui ad averle dato quel nome, il nome di un asteroide scoperto cento anni prima. Nascose l’asciugamani nel suo posto segreto e come se niente fosse andò a cena.
Stretto
di Stefano Giolo 3 Settembre 2015
Mi sento soffocare,
nel silenzio.
Mentre con occhi enormi mi guardi e non comprendi, occhi vitrei e vuoti, giganteschi come quelli di una bambola mi osservi e non comprendi, sento il tuo calore stringermi, sento il tuo cuore battere lento ma in contro tempo rispetto al mio veloce.
Sento le tue dita stringermi e non capisci.
Soffoco
non respiro
non c’è spazio per i miei polmoni
non c’è spazio per la mia pelle a respirare
non c’è spazio per il mio cuore che batte
-vorrebbe battere-
veloce.
Non c’è spazio.
Non capisci.
Non capisci che potrei essere il tuo principe che potremmo essere padroni di un regno tutto nostro, di un disegno, di un grande infinito universo di Noi?
No. Non capisci e ridi inconsapevole crudele, ridi e mi guardi, guardi la mia faccia buffa e sorridente e ridi come a guardare un clown mentre dentro me solo so la verità, so chi o cosa sono. Chi o cosa sono stato un tempo prima di tutto questo, prima di essere ridotto dagli eventi in questo stato. Ridi, e ridi e ancora ridi e mi indichi e ti scatti fotografie con me come per ricordare per sempre di avermi tenuto in mano, di avermi tenuto in tuo potere.
Sento le energie andarsene, prima lentamente e poi più velocemente e fatico a non svenire osservandoti mentre sono immobile, immobilizzato, incapacitato, terrorizzato, mentre sento esplodermi la testa e smettere di esplodermi e l’aria mi manca, mi manca insopportabilmente mi manca e tu ridi e mi fotografi perché mentre non comprendi ti appaio buffo, perché mentre la mia bocca si inarca con gli angoli verso l’altro anche la tua lo fa e mostri i denti ma quello che credi essere un sorriso non lo è davvero, non lo è dentro, è solo un riflesso condizionato.
Vorrei poter baciare quelle labbra, vorrei potessero baciarmi e rivelare il vero, rivelare quello che sono dentro, o vorrei poter almeno fuggire da te, allontanarmi in un balzo e non sentire più il tuo odore, non sentire più palpitare la tua pelle mentre la mia soffoca, mentre il mio cuore ormai rallenta mentre il mio cuore forse si sta fermando, mentre tu credi che questo sia un sintomo di rilassamento e non di svenimento, mentre tu mi interpreti con gli occhi della tua esperienza completamente diversa da quella che può essere la mia, probabilmente per sempre diversa da quello che sarà la tua.
Ma ridi e ridi ancora facendomi carezze che ritieni dolci sulla testa, stringendo il mio cuore nel pugno, soffocandomi ancora ed ancora.
Provo a parlarti -unica speranza- provo a dirti ciò che credo ma so che non capirai mai.
“Cra. Cra. Cra.“
“Cra. Cra. Cra.“
E solo allora, chissà perché, mi posi a terra.
Esplode
di Stefano Giolo 30 Agosto 2015
Con la schiena inarcata, quasi sdraiato, le spalle appoggiate sulla nuda roccia, la nuca ripiegata indietro ascolto. Ascolto i suoni, ascolto il vento, ascolto le stelle muoversi e voci lontane, lontane.
Lontane.
Inesistenti forse.
Ascolto il mondo ed ascolto il mio corpo e le sue sensazioni, ascolto l’universo entrarmi dentro ed uscire, ascolto l’universo nascere al centro del mio corpo in sensazioni multiforme e al contempo univoche e monolitiche come una e molte e molte ed una irradiarsi dal centro del mio corpo.
Apro gli occhi lentamente e al di sopra di me vedo allargarsi le braccia di una croce di ferro che come un albero, una torre, un oggetto inquisitore e non, si staglia sopra di me pesando e al contempo portando la mia mente oltre l’infinito verso l’alto verso dove potrebbe esserci o non un dio o un altro mondo o semplicemente nulla ma un nulla pieno di stelle e di luci che si accendono nella mia testa e sopra la mia testa e sopra quella croce e attorno alle mie mani che sfiorano ciò che ha innescato questo processo ciò che rende il mio viaggio più grande e lontano e al centro dell’essenza di ciò che è l’uomo di quanto avrei mai creduto.
Attorno sento solo i suoni dei monti, il brucare bovino incessante, il vento a muovere l’erba ed il suo vociare, ululare, borbottare lontano tra le fronde di alberi nel bosco vicino mentre il mio corpo, da dentro, da fuori, dal punto stesso in cui viene immessa energia sprigiona energia come sostanza a sua volta radiante dentro nella pancia, nel petto, nelle spalle e nel collo e dentro il centro del cervello e dal centro del cervello all’esterno e verso gli occhi e gli orecchi uscire verso l’universo e rientrarvi in un circolo di infinita elevazione mentre attorno il mondo sta dormendo e le luci delle città lontane iniziano a spegnersi ed il traffico a calare e quasi sembra fermarsi anche il fiume laggiù mentre qualcosa sta esplodendo, mentre qualcosa sta accendendosi come una fiamma di un fiammifero grande come un mondo.
Mentre qualcosa esplode come galassie che collidono e pianeti si scontrano e stelle mangiano pianeti e stelle mangiano stelle e sistemi inglobano altri sistemi e si distruggono e si scontrano e cadono lune e satelliti e d’un tratto torna il silenzio di un equilibrio ritrovato, di stelle ancora una volta ad illuminare nel loro nuovo posto pianeti di nuovo in pace e su uno di questi pianeti su un monte neppure troppo alto una croce e sotto una croce qualcosa che è accaduto, lì tra i movimenti del vento, proprio lì accanto all’erba brucata.
Nel silenzio o nella sinfonia di un’istante.
Fessura nel tempo
di Stefano Giolo 27 Agosto 2015
Sento ancora scorrere le mie dita, due, nella fessura sul tuo corpo, lentamente.
Come fosse oggi le sento scivolare dall’alto al basso ripercorrendola tutta mentre stiamo abbracciati.
I muscoli della tua schiena né rilassati né contratti, lisci sotto il vestito, sotto quella maglia bianca di lino con sul petto un apertura ricoperta di azzurro quasi come un pizzo e quelle maniche lunghe che scendono con i polsini allargati a strascico e le mie dita a scorrere sulla fessura che i tuoi muscoli sulla schiena lasciano a nascondere la colonna vertebrale.
Ho i tuoi capelli accanto al mio zigomo,
il loro profumo,
chiaro,
chiari,
il loro profumo,
i tuoi capelli come se fossi stata creata per essere tutt’uno con me,
con il mio corpo
danzando lentamente al suono di musiche del tutto nostre.
Sono passati anni -decenni- da allora,
sono passati anni -decenni-.
Siamo invecchiati nel tempo,
certamente anche tu,
lontani nel tempo,
lontani,
siamo invecchiati.
Ti feci una promessa allora -non la ricorderai- ed oggi mentre la ripenso, mentre ti ripenso, mentre penso alle mie dita nella fessura della tua colonna vertebrale mi chiedo come sia oggi la tua schiena, come sia il profumo dei tuoi capelli, come siano cambiate le nostre altezze e provo ad immaginare se tra le mie braccia il tuo corpo possa stare ancora perfettamente come quella volta, quell’unica volta, prima ed ultima, inizio e fine.
Avanti
di Stefano Giolo 30 Luglio 2015
Non è necessario siano dodici i gradi,
è l’umidità che conta,
il vento e l’aria elettrica di ora,
sono le sere in cui non c’è davvero freddo ma senti comunque i brividi,
che ti verrebbero anche se ti coprissi,
che mentre sei fermo a fare benzina o passeggi con un gelato in mano senti gli oggetti tintinnare
e ti guardi attorno come dovesse succedere qualcosa,
come se dietro le ombre si potessero nascondere altre ombre,
le sere in cui ti siedi in macchina e senti un profumo che non può essere lì come se accanto ci fosse stata Lei,
come se mentre eri girato tra le ombre fosse passata davvero un ombra o una luce un’istante.
La sua pelle,
l’odore la sua pelle,
l’odore del profumo sparso sulla sua pelle.
E vorresti prendere e fuggire,
prendere e rincorrere,
prendere e come in una ruota da tortura spaccarti in due per seguire le tue folli parti,
la tua razionalità ed il desiderio,
la follia,
e vorresti farti trovare là dove non devi,
dove potresti al massimo far trovare dei fiori come in passato,
dove non saresti accolto o lo saresti troppo
dove ogni movimento sarebbe frainteso o forse profondamente compreso,
dove ogni movimento, parola, istante sarebbero vere quanto lo sono su un palco,
poco per chi non sa e troppo per chi conosce.
Ed il vento scompiglia i tuoi capelli,
ed il freddo che non c’è congela ogni tuo muscolo impedendoti di muoverti,
di essere,
di aspirare,
di respirare,
di pensare se non che quel profumo è così reale,
reale tanto da bruciare i polmoni,
tanto da far tremare le mani,
reale tanto da.
E poi d’un tratto come un orgasmo che muore riprendi la tua strada e cerchi di dimenticare,
vai avanti lasciandoti seduto in un angolo da qualche parte nella tua testa,
lasciandoti seduto a fare quello che vuoi fare, non importa ma fallo da solo, fallo senza di te, fallo lontano che tu devi andare avanti, avanti, avanti sempre ancora.
Vai.
Europa 3
di Stefano Giolo 16 Luglio 2015
“Partirà nella notte qui l’han chiamato Europa 3
Nello spazio infinito che fa sentire vicino a dio cercherò il futuro là nasceranno altre città
Certo che mi mancherà questa vecchia gente che mi saluta spera solo in me che ho paura da nascondere su una stella nuova per ritrovare quello che qui non c’è”
-Timoria-
L’immagine della terra come la si rappresentava nelle antiche cartine verdi e azzurre è oramai un ricordo del passato, oggi è ormai arancione e grigio, le calotte artiche sono quasi irrimediabilmente sciolte e se ne vede vagamente traccia guardando il mondo da fuori come due piccole zone di un grigio più chiaro, non bianco. Quello che resta delle calotte artiche è ormai ricoperte delle polveri grigie che inglobano nei cicli in cui la superficie si scioglie e si congela di sei mesi in sei mesi ed ogni volta si congelano più piccole.
Nel giro di pochi anni il processo potrebbe invertirsi verso una nuova glaciazione, l’atmosfera è divenuta irrespirabile
Non vi è più traccia di azzurro e verde osservando da fuori il nostro pianeta ma oramai grigio e ocra sono i colori predominanti, intervallati talvolta da nubi spesso di colori iridescenti ricche di anidride solforica ed altre sostanze, non si vedono più luci ovunque negli scorci notturni ma solo localizzate in pochi centri, non più di un paio per continente, tutti ricoperti da enormi calotte di vetro, il resto della civiltà o della vita in genere sembra aver lasciato posto ad un grande deserto.
L’hanno mangiato i nostri padri e i padri dei nostri padri ed abbiamo continuato a mangiarlo noi ignorando volutamente ciò che stava accadendo attorno a noi.
Visto dalla terra il cielo è ormai divenuto rosso carminio e le temperature innalzate negli ultimi decenni, la fine delle risorse del pianeta azzurro. Sembra di essere in un eterno tramonto come se tale tramonto fosse in effetti il tramonto non solo di una civiltà ma di tutto ciò che un tempo la circondava. Visto dal basso al di fuori delle cupole si vedono solo rovine antiche di quelle che potevano essere città, rovine che nonostante gli anni sono state intaccate solo dai crolli e dalla polvere che come in una sabbiatrice leviga gli spigoli e distrugge i colori, nessuna traccia della natura che con la vegetazione tenti di riprendersi il suo territorio, nessuna traccia di nulla che possa dirsi vivo. Il mondo all’esterno è di gradazioni tra il rosso e il giallo e niente altro. Lo abbiamo mangiato, lo abbiamo mangiato, Abbiamo distrutto tutto nella Grande Guerra, abbiamo distrutto tutto. Non era bastata l’atomica, la bomba H, Hiroshima non ci ha insegnato nulla. I positroni. La bomba a positroni. Neppure l’estetica ormai anacronistica di un fungo atomico ma solo morte silenziosa ed immediata, da una parte all’altra del pianeta, distruzione, auto distruzione, nel giro di pochi secondi come un lampo che provenisse da un lato della sfera entrasse all’interno in direzione perpendicolare e poi si allargasse come un cilindro a riempire tutto il volume e la superficie. Poi colori cangianti, l’aria stessa rarefatta, cadaveri ovunque, cadaveri nelle città, cadaveri nella savana cadaveri galleggianti sulla superficie del mare, anche mostri marini sconosciuti, calamari giganti in superficie spinti da questa forza distruttiva ed uccisi e piante distrutte cadute ancora verdi ma prive di vita, intere foreste di conifere abbattute, con ogni singolo albero sradicato e comunque morto dentro cellula per cellula infinità di insetti caduti dal cielo o morti nella terra o nelle piante senza sapere neppure di esserlo, infiniti batteri, amebe, esseri monocellulari le cui membrane si sono rotte lasciando i citoplasmi uscire come uova rotte.
Gli unici esseri viventi salvatisi furono qualcosa come dieci o dodici comunità sparse per il mondo di cui attualmente solo alcune sono in grado, o vogliono, comunicare con le altre e parlare delle loro posizioni geografiche
Le comunità più colte tra le più ricche pochi anni prima dell’aggravarsi della situazione bellica mondiale avevano costruito degli scudi positronici i una potenza sufficiente a deviare il fascio positronico più potente conosciuto all’epoca
Enormi bunker sotterranei in piombo ricoperti sulla superficie di un materiale riflettente polarizzabile a cariche negative erano stati costruiti in alcune zone del mondo, ovviamente vennero popolate nella situazione di emergenza da persone potenti o importanti strategicamente come scienziati, costruttori, ingegneri. Molte di queste strutture vennero spazzate via piegandosi come scatolette e lasciando entrare radiazioni e particelle facendo esplodere una ad una le cellule che componevano i corpi di queste persone. Senza quasi dolore, o forse un dolore immenso concentrato in un istante di una brevità dell’ordine del millesimo di secondo. Come un raggio improvviso ogni corpo rimase come molle e privo di vita, della consistenza della verdura scongelata.
Gli unici bunker che ressero realmente erano in alcuni centri scientifici dove il lavoro fu fatto con l’intelligenza e non con il profitto Da allora i centri di “civiltà” ancora presenti sono delle specie di riserve indiane. Qui in una di esse vive il nostro protagonista “Non credevo saremmo arrivati a questo punto, non lo credevo” Un uomo, un uomo come lo erano in tanti altri, i tratti asiatici tradiscono gli danno un aria forse più giovane ma i capelli brizzolati ne tradiscono un’esperienza maggiore di quanto appaia. Indossa una tuta azzurra, omaggio al colore della terra, larga e morbida, una tuta spaziale. Ai polsi sono presenti anelli per l’aggancio di guanti e alla collo un anello più largo per l’aggancio del casco. Non vi sono loghi ne bandiere “Le bandiere non hanno più senso in un mondo dove nessuno vuole distinguersi e sentirsi più potente di un altro” ne nessuna immagine distintiva. Non vi sono telecamere di grandi annunci ma tutti i due o trecento abitanti radunati attorno a lui e ad altri due uomini ed una donna vestiti allo stesso modo. L’unica scritta è impressa sulla carena dell’enorme mezzo alle spalle dell’uomo, “Europa 3”. Il mezzo è al contempo avveniristico ed artigianale, la livrea bianca e lucida riflette la luce rossa come nei grandi momenti ma il mezzo è costruito di materiali di recupero. Un tempo questa doveva essere una base di lancio per satelliti televisivi o sonde di qualche genere. Ma anche i loghi di questa società o base sono stati deposti, non c’è modo di sapere cosa fosse e probabilmente non importa. I tre motori a reazione sono spaiati diversi tra loro, il corpo dell’astronave somiglia vagamente a quello di uno shuttle ma le dimensioni sono decisamente ridotte rispetto a quest’ultimo, ha più l’aria di un grande aereo. “Signori e signore ecco a voi Europa 3, la speranza per la rinascita di una nuova civiltà altrove, lontano da qui, è equipaggiata con il meglio della tecnologia recuperata”
All’interno, accanto alla console di guida vi è un computer con cabinet vecchio stile, fissato con viti alla struttura stessa della console di guida, sta girando un software di diagnostica che sembra effettivamente in grado di visualizzare le componenti della navetta nonostante sia esteticamente un comune PC
“ed è probabilmente l’ultima speranza per un mondo migliore, possiamo andare a recuperare i mezzi abbandonati su Marte”
Marte, visto da lontano non sembra più rosso e morto come un tempo, sulla sua superficie vi sono diverse cupole ricche di vita floreale ed alcune sembrano dei giganteschi zoo pieni di animali. Tutto però sembra abbandonato, non sembra esserci presenza umana ma tutto è fatto da automi che si occupano dell’approvvigionamento di risorse, della coltivazione, della produzione di cibo per gli animali e per le piante. Dei sensori indicano che le percentuali di gas nell’aria all’interno delle cupole è ottimale per l’uomo. Ogni cupola è collegata alle altre da tunnel stagni e talvolta si vedono aprire i portelloni tra una cupola ed un tunnel e passarvi attraverso un mezzo automatizzato che trasporta materiale da una all’altra parte, ogni cupola è dotata di una base di lancio e al centro della disposizione delle cupole stesse vi è una gigantesca base di lancio. I vettori presenti sulle varie basi di lancio sono numerosi anche se la gran parte è assente.
“Non abbiamo più modo di comunicare con il pianeta dopo l’esplosione ma stimiamo che i mezzi automatici dovrebbero aver continuato a funzionare nonostante l’abbandono e dovrebbero esserci ancora diversi vettori funzionanti. Dovrebbe essere possibile recuperarli”
Viscido
di Stefano Giolo 12 Luglio 2015
Ti osservo da un po’, sei lì, seduto immobile con gli occhi chiusi.
È ora di svegliarsi mio amato, è ora di vegliarsi.
Scuoto il pavimento.
Ti osservo mentre improvvisamente apri gli occhi, lo sguardo allucinato con il quale ti guardi attorno, spaventato attonito incredulo nel buio.
Ti osservo.
Senti il morbido di quel molle pavimento sotto il tuo corpo.
Viscido.
Senti le pieghe morbide e tumide su cui sei seduto.
Viscido.
Ti osservo mentre come cieco abbassi le mani e lo tocchi, ne saggi la consistenza, cerchi di comprenderne il significato mentre la tua mente torna lentamente attiva, lentamente.
Ti metti a carponi mentre speri che il tuo sguardo si abitui al rossastro buio che ti circonda.
Ti metti a carponi e tocchi
viscido
ciò che ti circonda.
Vedo nei tuoi occhi la paura, il dubbio, l’incomprensione prima e poi lentamente montante dal nulla all’estremo il panico.
Ti alzi in piedi e urli a squarciagola, urli, urli come se qualcuno potesse sentirti ma solo io
dentro di me
posso sentire la tua paura il tuo terrore.
Guardi la discesa di fronte a te, il buco pulsante e scuro che ti porterebbe dove non puoi sapere e mentre gli occhi si sono abituati sono più grandi, più veloci
si muovono senza tregua attorno con le tue mani, con la tua testa con il tuo collo
scivoli
per un momento scivoli verso la fossa
il buco
l’uscita sbagliata
ma ti aggrappi, ti aggrappi alle tumide pieghe rosse e non cadi
ti arrampichi, sali, ti arrampichi e torni in posizione sicura.
Ti osservi attorno circondato di questa molle situazione mentre osservi in alto e guardi l’altra possibile uscita.
Sei nella follia del panico
sei nel non controllo della paura
sei nell’ossessiva ricerca di comprensione di qualcosa che non puoi capire
urli ancora.
Urli.
Calci la parete molle accanto a te, le dai pugni, le dai calci ancora e ancora pugni urlando e non ti accorgi che in tutto questo si muove
ciò che ti circonda si muove e si agita mentre io ne godo
ma non è ancora il momento di lasciarti andare, non è ancora il momento.
Ti fermi e controlli nelle tua tasche ciò che puoi avere.
Nulla ovviamente
ma tu controlli e speri ricordando di aver scordato qualcosa
Ti siedi nuovamente sconsolato.
Con una mano carezzi una molle piega su cui seduto mentre sei sovrappensiero e questa ancora in uno spasmo si muove,
ti sposta, ti allontana
gioisco nel mentre
sorrido
Il tuo sguardo si rabbuia qualche istante, vedo le tue sopracciglia avvicinarsi tra loro, le pupille puntare verso il basso come a cercare concentrazione, il tuo sguardo si sposta leggermente di lato, verso destra,
ricordo quella tua espressione, quella di quando frughi nella tua testolina a cercare un’idea, un ricordo, un appiglio.
Non mi serve supporre o immaginare ciò che stai per fare ed infatti porti la mano alla fronte e ti massaggi le sopracciglia mentre osservi qualcosa di inesistente oltre la tua mano o meglio dentro la tua testa. So già contare i secondi che ti ci vogliono prima di vederti alzare, togliere la mano dalla faccia e guardare in basso col collo incurvato quasi a guardare così in basso da guardare sotto il tuo stesso braccio poi dopo aver fatto due passi provi ad arrampicarti sulla superficie ruvida e ricca di pieghe e mentre ti arrampichi le pieghe stesse si allargano, si muovono, si agitano sempre di più ed io ti osservo e rido e penso a quanto ti amo e quanto nella mia vita tu sia stato un punto di riferimento e al contempo rido di questa tua situazione.
Rido
e mentre rido tutto attorno a te si muove ancora si agita come se ciò che ti contiene fosse preso da convulsioni
ma non è ancora il momento, sto godendo della situazione ma come se stessi facendo l’amore con te non voglio arrivare subito al momento fatidico, voglio gustarmi ancora la tua situazione mentre scivoli e ricadi nuovamente sul fondo e scalci a terra e dai pugni con la faccia della rabbia, con la faccia di chi vorrebbe una mazza per spaccare tutto anche se non c’è niente.
Ti fermi.
Osservi.
Per un istante hai nuovamente l’aria di chi ha capito e ricominci ad arrampicarti, incessantemente nonostante le scosse, nonostante i movimenti inconsulti sali attaccato come un ragno o un geco alle pieghe e mentre queste si muovono, mentre si scuotono, mentre cercano di cacciarti tu resti aggrappato fina a giungere quasi all’uscita.
È quello il momento in cui una scossa più forte mi dice che è il momento del piacere
il momento in cui ti lascerò andare fuori per sempre dalla mia vita
il momento in cui il mio stomaco ti sputerà fuori da questo mio mondo nel cesso di un bar schifoso dietro la cui parete amici sorridenti ed ignari mi aspettano.
E ti osservo mentre risali il mio esofago impigliandoti un istante nel cardias come per trattenerti, spinto dagli acidi in cui neppure ti accorgevi di essere.
Mi sembra di vederti un istante in mezzo alla cena di questa sera mentre premo il tasto dello sciacquone, mi sembra di sentirti urlare mentre soddisfatta mi pulisco la bocca e risistemo il trucco, mentre la bolla attorno a me scompare.
Ora posso tornare a sorridere, ora posso tornare da loro.
Come una freccia lanciata nel cielo
di Stefano Giolo 12 Luglio 2015
Finalmente ciò che avevo iniziato e nato dagli esercizi di stile recenti e da dell’altro è terminato, ha una sua dignità un suo essere ed è ora per me di lasciarlo andare non tanto alle spalle quanto per la sua strada qualunque essa sia.
Verrà a chiamarmi quando sarà ora, a bussarmi alla spalla dicendo “Hei, io sono qui, è il momento”.
Come un arciere lancia una freccia in una direzione ma non avrà mai la certezza di dove questa sia arrivata fino a quando non la vedrà piantarsi.
Un tributo ad Elisabetta Grieco che ha così celermente e precisamente trasposto su carta l’idea che avevo in testa nell’immagine che aveva in testa lei pur non avendo ancora letto una versione completa dell’opera stessa e pur non avendola io ancora finita nel mentre.
Mi sono reso conto solo a posteriori che rappresentava ciò che vi è dentro molto più di quanto avrei mai potuto immaginare in quei giorni.

Ora arriveranno probabilmente altri esercizi, simili ma diversi in un mondo che si sta creando nella mia testa. Credo che il genere rimarrà ancora lo stesso per un po’, poi si vedrà dove cadranno le frecce, poi si vedrà come cambierà il mondo.
Spleen et idéal
di Stefano Giolo 15 Giugno 2015
Tengo chiusi gli occhi ancora un po’, attorno a me il buio filtra tra le palpebre ed il silenzio mi avvolge, lo vivo, me ne lascio pervadere, mi lascio attraversare mentre osservo i tuoi occhi.
Capita talvolta osservando troppo un flash, una luce forte, il sole che questo si imprima in qualche modo sulla retina e che chiudendo gli occhi essa appaia ancora impressa come dentro le palpebre, come sospesa a qualche centimetro dagli occhi a seguirti in qualunque direzione osservi. Tutto ciò che vedi non puoi che vederlo attraverso quella palla al centro in qualche modo iridescente, mutante ma stabilmente immobile al centro del tuo sguardo.
Sono così i tuoi occhi per me, immobili al centro, privi quasi di un viso che resta evanescente, bianco quasi trasparente, nascosto nel buio come un fantasma. Al centro i tuoi occhi non chiari eppure neppure scuri di un colore indefinibile perché definirlo sarebbe come perdersi nell’infinità di un abisso, così vivi da non poter non esserne attratto come due buchi neri in grado di assorbire la luce ma non come buchi neri perché in grado di emettere una brillantezza che neppure alla perla più preziosa sarà mai concesso; indefinibili perché impossibile osservarli senza sentircisi l’anima trascinata giù e al contempo impossibili da non osservare per comprenderli.
Li vedo ancora qui, di fronte a me dagli occhi chiusi e non voglio sporcare questa vista col mondo, mi sento quasi soffocare da questa immensità come un peso sulla trachea come se l’aria pesasse, come il silenzio di tutto questo fosse così eterno da non aver bisogno di essere conservato nei ricordi.
Apro lentamente gli occhi, perché so che infine prima o poi lo dovrei fare comunque e nel buio assoluto vedo ancora queste due immense sfere, questi astri lucenti ed attorno ad essi sfumato un volto bianco, truccato per sembrare più smunto, un volto quasi impercettibile.
Provo a ruotare lentamente lo sguardo ma ancora, ovunque vedo i tuoi occhi, quegli occhi che ormai sento in qualche modo miei, come fossero parte di me. Resto ad osservarli ancora mentre i miei si abituano lentamente, molto lentamente al buio. Penso ai pochi istanti passati assieme o ai moltissimi, penso a cosa sei stata o sono, o siamo mai stati, e mentre penso mi accorgo che nulla di questo conta quanto conta ciò che vedo ora, ciò attraverso cui vedo ora.
Il senso di stretto alla gola si fa più pressante, non lo comprendo ma non rappresenta un problema in grado di distrarmi mentre il tuo volto si avvicina, truccato in modo stravagante davvero e poi si allontana un po’ e torna ad avvicinarsi ancora, osservo le occhiaie attorno a quei due portali verso l’infinito, così scure mentre la testa mi gira, mi gira mentre il tuo volto immobile ondeggia con me stabile al centro, si avvicina lentamente, si allontana, si avvicina.
Osservo le sopracciglia, la fronte liscia mentre gli occhi si abituano ma comincio a scorgere qualcosa che non torna, qualcosa di te che non ricordavo, una cicatrice che mi fa arrivare alla mente ricordi improvvisi che mi fanno sentire ancora più il peso di quest’aria assente.
E mentre quel volto si avvicina, si allontana mi accorgo che lentamente il tuo sguardo è scomparso nei meandri di un ricordo di un istante di un passato di un sogno di una racconto di una fiaba di un libro non scritto e quel volto, bianco, smunto, con nere occhiaie mi accorgo essere lentamente il mio che si allontana, si avvicina, si allontana, si avvicina.
Provo ad alzare una mano per toccarlo, per toccare il mio ma non mi è possibile e mentre dondolo avanti, ed indietro, avanti ed indietro davanti allo specchio di questo armadio ricordo all’improvviso di un anello che portavo al collo e che non vedo più nel riflesso al suo posto, di un anello che vedo ondeggiare in alto dietro la mia nuca legato al filo che lo reggeva, legato a qualcosa più in alto e che non vedo nel buio, mi accorgo l’aria nei polmoni non c’è più, che i polmoni non chiedono più aria. Mi accorgo che non so come io sia finito qui se per errore o desiderio ma che non rivedrò più quel ricordo di un istante di due immensità e del loro sorriso lucente e del riflesso del mondo attraverso di esse.
Oltre il muro
di Stefano Giolo 30 Maggio 2015
Non ho voglia di svegliarmi, non credo sia ancora il momento, voglio rimanere ancora qui un po’ nel letto a ricordare la serata di ieri.
Quando mi sono vestita per lui e…
…cos’è successo ieri? Perché non riesco a ricordare?
Il letto non è affatto morbido, ed è freddo, ed ho un dolore forte al centro del petto.
Dove sono?!
Attorno a me buio, non sento il ticchettio della sveglia, ma è qui, la tocco ma sono sul pavimento e attorno sento solo la sveglia che non fa rumore e non sento le fughe delle mattonelle.
Sono seduta e gli occhi si stanno abituando all’oscurità, il pavimento di questo luogo è nero e lucido, somiglia a vetro ma è in qualche modo più solido del vetro, quasi fosse una pietra vetrosa, liscia, infinita. Non vedo niente altro attorno a me. Tranne la mia sveglia a terra, ferma a segnare le dodici, mezzanotte credo data la stanchezza che sento nel corpo.
Mi guardo attorno e mi viene da piangere perché non so cosa fare qui, non c’è lui, non ho modo di contattarlo, e non c’è nessuno.
“Hei?! C’è nessuno?! C’è nessuno qui? Dove mi trovo?”.
Sento il mio cuore battere forte e tremo, l’aria mi manca.
“Calmati, su, calmati, cerca di capire cosa è successo, calmati”
Mi alzo e comincio a camminare, mi sento tremare, sento caldo, freddo.
Cammino avanti ed indietro in questo buio, in questa assenza di mondo, cammino e non riesco a stare ferma, avanti, indietro, avanti indietro, ma dove vado?
“Calmati, calmati, ragiona, calmati“
Mi viene da piangere, mi viene da piangere e non so cosa fare.
Poco distante comincio a scorgere un grande specchio, mi ricorda l’armadio a specchio che ho in camera ma ha più le proporzioni di una porta. Cos’altro ho da fare se non andare a vedere di cosa si tratta?
“Cos’ho da fare se non andare a vederlo?“
Porterò con me la sveglia, per quel che può servire, è pur sempre un pezzo della mia vita, anche se in questo momento ricordo solo la sveglia e che ero uscita per lui. Non ricordo il suo volto, non ricordo il suo nome e non ricordo il mio, e non ricordo chi fossi io ne niente altro, forse ho preso una botta, non ricordo di essere una che beve molto ne che si droga.
“Non mi hanno drogata, non mi sento drogata, mi devo calmare“
Il mio lavoro è invece qualcosa che ha a che fare con … una stella, un simbolo, alloro.
Mal di testa, una fitta, alla testa ed al petto, sto sudando tantissimo, sento l’odore del mio sudore, e il freddo.
Sono arrivata allo specchio, è grande pressappoco come una porta ma privo di maniglie, ha solo un bordo dove potrebbe esserci quello di una porta stessa ma dietro c’è un pannello nero e niente altro. Si tratta di un normale specchio per quanto sembri spuntare dal pavimento con soluzione di continuità.
“Uno specchio.”
“Sono una bimba?” Una bimba un po’ gotica però. Appena truccata indosso una maglia con sbuffi di pizzo sul petto e maniche fini quasi trasparenti, una gonna a falde di stoffe delle varie tonalità del nero, asimmetrica e degli stivaletti con il tacco, il tutto in toni di nero.
Qualcosa mi dice che non sia un vestiario tipico per una bambina che potrebbe avere meno di dieci anni.
La mia pelle è stranamente bianca, quasi da bambola di ceramica e con i capelli lisci e biondo scuro do l’impressione di una metallara un po’ prematura, anche se non porto unghie nere o borchie o pendagli strani.
Mi siedo dando le spalle allo specchio e metto le faccia tra le mani.
Devo riuscire a ricordare chi sono, da dove vengo, cosa ci faccio in questo strano ambiente, è come se questo specchio ne fosse in qualche modo l’entrata, o l’uscita, il talismano, il centro. Il centro di un nulla però.
“Le mie mani“
Le mie mani non sono quelle di una bimba, le dita sono lunghe, fresche di manicure, affusolate, porto unghie perfette, di media lunghezza e con le cuticole ben curate
-“Di chi sono queste mani?“- smalto trasparente.
Formicolio che attraversa le spalle, muscoli che si irrigidiscono, mi alzo e mi allontano dallo specchio, cammino, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti ed indietro.
“Calmati, calmati“
La gamba che involontariamente vibra, si muove
“Chi cazzo sono?! Chi sono?!” urlo.
Il vestito è quello che ho visto ma non sono una bambina, non ho gambe da bambina, non ho il petto piatto di una bambina.
Ma non so chi sono.
Mi giro di scatto a guardare nuovamente lo specchio, e mi vedo adulta, indosso un tailleur grigio antracite, con una borsa bauletto più chiara, e delle scarpe nere con tacco, i capelli raccolti di lato sulla spalla destra, credo abbia a che fare con il mio lavoro, ma il mio corpo, quello reale, quello che posso toccare continua ad essere vestito di nero, con quella gonna, quei tacchi quelle maniche.
Il mio riflesso si muove come me, ha le stesse unghie curate, la stessa espressione perplessa ma indossa un vestito da rappresentanza, nel riflesso, dietro di me compare per un istante un cartello con scritto “Agenzia investigativa HL”.
Mentre il cuore comincia a battere meno forte sento forse l’ultima goccia di sudore scendere dall’attaccatura dei capelli giù per il mio visto, sfioro le labbra con la mano e riaffiora qualche ricordo.
“Agenzia investigativa HL“
Stavo seguendo un caso, un uomo aveva ucciso diverse donne, o almeno diverse donne erano morte: due? Tre? Forse anche una bambina.
“Investite“
Lavoravo da poco per l’agenzia, una giovane spavalda rampante appena arrivata, ma pare che quell’uomo prediligesse giusto le ragazze giovani ed io potevo sembrarlo ancora più di quanto lo fossi. Si fidavano di me perché avevo una buona capacità di correlare dati ma non ero mai stata sotto copertura, non è neppure una pratica che queste agenzie facciano in genere, troppo rischioso. Eravamo stati ingaggiati da una famiglia la cui figlia era scomparsa, all’inizio avremmo dovuto solo trovarla ma quando la trovammo schiacciata ci chiesero di proseguire l’indagine senza coinvolgere le istituzioni ufficiali. Credo che il mio capo accettò solo per l’offerta economica notevole, perché invadere questo genere di indagine per un’agenzia rischia di essere più un danno che un guadagno.
Non eravamo mai riusciti a risalire all’auto perché le stordiva o uccideva prima di investirle e quindi non faceva danni tali da dover riparare il mezzo o comprare ricambi, e non avevamo neppure idea di che modello fosse. Gli omicidi che supponevamo essere stati effettuati dallo stesso autore erano avvenuti in posti apparentemente slegati tra loro, nessun legame se non il gusto nel vestirsi di nero, e le modalità estremamente simili.
“Il gusto nel vestirsi di nero.“
E poi c’era lui, lo vedo ora nello specchio dietro di me ad osservarmi col suo sorriso ironico di quando mi osservava convinto di non essere visto, quel suo sguardo ironico ed innamorato che tante volte ho spiato mentre lui pensava di spiare me, avrei potuto lasciarlo fare per ore.
Ma non avrei mai dovuto innamorarmi di lui non avrei mai potuto immaginare che avrei finito per farlo quando sono stata inviata ad indagare da vicino, avevamo pensato che potesse essere il nostro uomo solo grazie ad una segnalazione anonima su un auto sporca di qualcosa che poteva essere sangue.
Anonima.
Ma con il cachet proposto non potevamo dire che ce ne stavamo con le mani in mano, non avevo la certezza fosse lui, anzi non c’era nessuna prova che lo fosse, ma era l’unica pista disponibile ed io mi trovavo abbastanza bene nell’ambiente che frequentava.
Avevo scelto di non innamorarmi di lui nonostante quelle spalle non grandi ma fiere, nonostante il suo modo di farmi ridere.
La prima volta che un brivido mi prese fu passeggiando, quando la sua mano sfiorò per un istante la mia, non saprò mai quanto fosse reale, casuale, o manipolatorio quel tocco, ne i successivi, ne quel bacio sulle labbra mancato che doveva essere un normale saluto sulla guancia, ma a pensarli mi fanno ancora sorridere di piacere, sento ancora sulla nuca salire qualcosa tra i capelli.
Il momento in cui mi accorsi che il danno era fatto fu però quando una sera parlando di un’amica descrisse con dovizia di particolari il cappottino sfiancato, verde scuro di velluto raso con la cintura in vita, il suo stupido papillon da uomo indossato su una camicia viola con uno strano scollo e perfino l’anello con pietra ovale viola. Stupido non lo disse lui ovviamente, e questo mi fece capire che ne ero gelosa, che non avrei voluto mi fosse portato via neppure da me, dal mio lavoro. Fu il modo di descriverla, così ricco di particolari, così fatto di pregi di poca importanza eppure così piccoli da dover richiedere un interesse nel dettaglio che non aveva con me.
Cominciai ad accorgermi dell’odore della sua pelle quando mi passava accanto, della pelle del suo collo, ricordava i particolari di altre e mi faceva incazzare quando non ricordava la collana che avevo indossato il giorno prima, o forse lo faceva apposta per farmi rodere e trattenermi un po’ più accanto.
Mi convinsi che avevamo sbagliato obbiettivo, mi convinsi che quella persona non poteva essere un assassino, che dalla sua gentilezza d’uomo d’altri tempi non potesse scaturire violenza, mi convinsi che forse dopotutto c’era un motivo se ero finita tra le sue braccia.
C’era un motivo, mi sentivo in una storia scritta da uno scrittore pazzo, ma mi sentivo viva, sentivo il cuore accelerare quando lo stavo per incontrare e fermarsi quando le sue labbra si posavano sulle mie.
“Cos’è questo?“
Al centro del mio petto c’è una zona di nero più scuro, più secco, più rappreso ed al centro un buco.
“Ah“
Quella sera lui era strano, lo aspettai più del solito, era sempre puntuale ma non quella sera. Uscimmo come quasi ogni giorno da qualche tempo ma non parlò quasi mai, mi portò in riva al fiume a guardare l’acqua scorrere seduti sui sassi bianchi e lisci e poi tornammo alla macchina dove mi guardò con aria grave.
Ricordo come fosse ieri, o forse era ieri davvero, o forse era addirittura oggi, il suo sussurro a voce bassa ma calda all’orecchio sinistro. La sua voce calda.
“Mi dispiace, deve finire. Qui. Oggi. Ora. Ho provato a convincermi che non fosse così, che tu fossi diversa, che io fossi diverso, ma non è così. Io devo seguire la mia strada e tu sulla mia strada sei solo una tappa“.
Il suo fiato si addensava poco distante dalla bocca e le sue braccia non bastavano a non farmi sentire i brividi
Sentivo le lacrime scendere ma mi sentivo apatica, intontita, come immobilizzata. Credevo avrei pensato un milione di cose in un momento simile ma invece la mia mente era piatta, vuota, calma.
Mi passavano solo nella mente i ricordi dei momenti vissuti e niente altro.
“E il senso di colpa.”
L’idea di aver sbagliato io di non essere abbastanza, di non essere adeguata, di essere sbagliata. Non mi passò per la mente neppure per un istante a che cosa si riferisse.
Dissi qualcosa, non so neppure cosa.
Disse qualcosa.
Abbassai la guardia completamente.
Poi come un improvviso spasmo sentii entrarmi nella carne qualcosa. Nel petto.
Mi congelò. Era come sentire un pezzo di ghiaccio che al contempo bruciasse la carne.
Lo vidi girarsi lentamente e mi sentii dire da lontano qualcosa come “io ti amavo stupido idiota” mentre la mente si annebbiava, mentre tutto diveniva scuro, mentre mi sentivo posare su di un pavimento nero di asfalto, mentre una chiazza lucida si allargava sotto di me e faceva apparire l’asfalto vetro nero.
Vidi una porta aprirsi, la sentii chiudersi con un tonfo alle spalle anche se ero sdraiata. Vidi un riflesso come se la porta fosse di specchio ed eccomi qui.
“Ed eccomi qui.“
Credo che l’unica cosa da fare sia incamminarsi nella direzione indicata da questa che un tempo forse era una porta, credo di sapere dove sto andando anche se non ne conosco ancora la forma, e mentre cammino un pappo di un pioppo mi passa accanto, di sfuggita mi è parso ci fosse un piccolo omino appeso dentro ma la luce, l’erba, il cielo che si stanno aprendo mi fanno pensare di essere quasi giunta alla meta.
“Ora ricordo“
Oltre il muro del sonno
di Stefano Giolo 27 Maggio 2015
Quella sera indossavi un vestito nero, un bellissimo vestito nero. Un po’ oscuro forse ma su di te, sulla tua pelle candida, sul tuo corpo non poteva che essere perfetto. Ricordo come fosse oggi i tuoi capelli castano chiari, lisci ma voluminosi scendere fino metà schiena scalati in modo da avere la zona centrale più lunga. Il rosa chiaro della tua pelle spuntare da dietro ai lati dei tuoi capelli dove la maglia finiva con una scollatura larga ma non volgare lasciando immaginare dove la curvatura del tuo collo andava ad attaccarsi al di sotto di orecchie perfette ed invitanti.
La maglia era nera, come il resto, e a contrapporsi al dietro liscio sulla parte frontale era ricca di fronzoli e pizzi monocromatici spinti all’esterno da un seno non troppo prorompente ne assente, di una misura perfetta. La scollatura lasciava scoperte le clavicole in tutta la loro lunghezza e solo poco più in basso lasciando l’immaginazione scivolare sui tendini del tuo collo piuttosto che sul décolleté pudicamente coperto, e vorticare fino al tuo mento perfetto, le guance lisce e gli occhi di una gradazione tra il verde ed il grigio truccati solo lievemente per allungarne l’angolo. Occhi che avrebbero potuto tagliare in due, o sciogliere, o far ridere a crepapelle, o far morire d’invidia. Le braccia erano coperte da maniche semi trasparenti di pizzo che terminavano con strisce di stoffa da cui uscivano le tue bianche mani con le dita affusolate e unghie mediamente lunghe prive di smalti ma perfette.
La maglia scendeva fino ad una gonna coprendone una piccola parte con un triangolo rivolto verso il basso. Era la gonna il pezzo forte, fatta di veli neri di stoffa finissima alcuni quasi trasparenti ed altri più spessi messi in modo assimmetrico e rialzati dietro dal tuo corpo a scendere sinuosamente staccati dalle tue gambe.
La maglia stretta evidenziava i tuoi fianchi altrettanto stretti e la gonna scendeva a tratti poco sotto il ginocchio a mostrare gambe chiare coperte di collant a rete come una tela di ragno, sostenute da stivaletti col tacco in stoffa opaca.
Ricordo come fosse ieri ogni particolare di quella sera, dal tuo vestito alla musica che stavamo ascoltando, “Crimson” dei Sentenced, la nostra preferita era “Killing Me, Killing you”, ironia della sorte e quella sera la ascoltammo la ascoltammo la ascoltammo ancora ed ancora ed ancora una volta.
Killing Me Killing You
Killing all we have
As our loves wither away
Burning Me Burning You
Burning us to ash
Drowning us in a sea of flames
Darling, do you feel, there is a storm coming our way
The burning light between us is already starting to fade
The fire in our hearts is smothered by the rain
and the crimson flame of passion turns into something gray
Non ci conoscevamo da molto ma era come se tu mi conoscessi da una vita, come se sapessi ogni istante quale sarebbe stata la mia reazione, quale sarebbe stato il luogo che avrei desiderato visitare, quasi ogni istante. Uno ti sfuggì probabilmente.
Era l’una di una notte di primavera, una di quelle in cui il caldo se ne va e il pizzo che copriva il tuo corpo lasciava andare un po’ troppo calore, giusto quel tanto da farti da farti irrigidire i muscoli e dare la possibilità al tuo uomo, a me, di abbracciarti stretta e stringerti per trasmetterti il mio, e farti vedere che c’ero, che ero lì.
Ti guardai diretta negli occhi e ti dissi il mio pensiero. Quel giorno sarebbe dovuta finire.
Mentre parlavo le parole sembravano riassumersi, raggrumarsi nell’aria, addensarsi in nuvole e fermarsi qualche istante tra me e te prima di proseguire dileguandosi nell’aria, non ero sicuro che tu stessi comprendendo quanto stava accadendo
“Non dico che sarebbe potuta finire in modo diverso“
Mi dissi guardandomi dritto negli occhi.
“Dico solo che, poteva non finire“
Le lacrime rigavano il tuo volto trascinando quel poco di mascara che era il tuo unico vezzo, il tuo volto era però immobile, impassibile mentre i tuoi occhi sembravano spegnersi virando dal verde grigio al grigio, qualche goccia cadeva sul pizzo esposto dal tuo seno scurendolo se possibile con un piccolo alone, un altro, un altro ancora.
Pensavi che il problema fosse tuo, che fossi tu a non sapermi amare come credi ma non avrei mai potuto dirti dove fosse il problema, non avrei mai potuto rivelarlo a nessuno senza drammatici epiloghi.
Eravamo appoggiati al cofano della mia macchina, tu seduta con un tacco sul paraurti ed un ginocchio in avanti, io abbracciato a te leggermente di lato in piedi probabilmente nel mio cappotto nero di pelle anni settanta, i miei stivali, il cappello con la tesa e qualche jeans e camicia a caso.
Il discorso non durò molto a lungo, d’altronde, non c’era neppure molto da dire se non la realtà di come stavano i fatti. Te lo concessi alla fine, ti concessi di sapere, ti concessi di conoscere ciò che mi portavo dentro da troppo tempo e che mai avevo condiviso, poi misi in tasca la mano e ne estrassi qualcosa.
Ricordo le tue mani posarsi sul mio viso qualunque espressione esso avesse, la tua attesa delle mie parole, e gocce ancora che cadevano. Le ricordo scendere dal tuo volto prima lentamente quando si staccavano dalle tue ciglia e poi accelerare sempre più fino al colmo delle tue gote e precipitare sulla superficie della tua guancia, arrivare in prossimità del centro del mento dove avevi una lieve e buffa rigonfiatura e da lì gettarsi suicide sul pizzo sul tuo petto sul tuo cuore sul tuo sangue sul tuo silenzio sui sussulti dei tuoi polmoni sui suoni del di dentro del tuo corpo a macchiare altre macchie che stavano crescendo.
Il tuo sguardo era allora di stupore, gli occhi grandi aperti più del dovuto, le labbra leggermente aperte, l’incavo al centro del collo tra le sporgenze delle clavicole incavato.
Non ebbi il coraggio di guardarti ulteriormente, non di guardarti così, immobile di sasso, di restare senza aver più nulla da dire ne da sentire, lasciai scivolare le mie mani una dal tuo volto ed una dal tuo addome verso i miei fianchi, pensai ancora quanto avevo amato il liscio di quella pelle e mi girai. Ricordo il vento che mi spingeva i capelli sul volto, sentii la tua voce dire “io ti amavo stupido idiota”, lottai per non voltarti e guardarti un ultima volta, lottai per ricordarti come ti ricordo ora e poi sentii infine un tonfo lieve e sordo.
L’asfalto cominciava a bagnarsi di pioggia, sentii le gocce sul viso e le ringraziai perchè non avrei dovuto chiedermi cos’era quel liquido sul mio volto. Ti immaginai lì ancora sull’asfalto, con i capelli spettinati e bagnati di troppe cose, immobile con il volto della speranza forse non ancora disillusa ma allontanai questa immagine.
Girai attorno alla macchina senza guardare in direzione del muso, salii, mi fermai il tempo di mettere al massimo il volume su “Beyond The Wall Of Sleep” ed diedi gas in avanti.
Poi andai a lavare via i resti di quella sera dall’auto, quelli che la pioggia non aveva lavato.
La porta del paese delle meraviglie – Epilogo
di Stefano Giolo 19 Maggio 2015
Il rumore che la maniglia produsse fu secco ma chiaro, sentii inizialmente la resistenza alla rotazione e poi dopo un lieve sforzo lo scatto ed il suono del blocco che usciva dallo stipite per lasciare libera lo specchio, la figura accanto a me stava facendo lo stesso e mentre aprivo la porta la vidi sia nel riflesso -finché mi fu possibile- che nella proiezione reale. Fu quando la osservai entrare nel nero del legno che vedevo dietro che mi accorsi che qualcosa non andava.
Il vetro si era staccato dal pannello di ebano ma non si aprì alcun passaggio, anzi, una parte si era rimasta lasciando una porta più piccola ancora chiusa.
Il cuore mi batté forte in gola forse per la prima volta in questo strano viaggio, batté forte da farmi sembrare di non essere più in grado di respirare, sentii la gola chiusa ed i peli sulla nuca mi si rizzarono mentre misi la mano sulla nuova maniglia che era spuntata. Provai ad aprire un nuovo passaggio ma accadde lo stesso: dopo un secco suono anche questa parte di specchio si staccò dal legno ruotando su cardini che prima erano invisibili e rimanendo a puntare verso l’esterno vuotamente senza che fosse possibile entrare e lasciando una nuova più piccola porzione di specchio con una nuova e più piccola maniglia, aprii anche questa, ed una ulteriore più piccola, ed un altra ancora, ed un altra. Non so quanto avrei potuto proseguire ma mi fermai.
Mi guardai attorno e vidi solo il buio di questo luogo, il pavimento in ossidiana lo specchio ormai aperto e nessun punto di riferimento se non quest’ultimo. Decisi che l’unica direzione che potessi prendere era quella perpendicolare a quella che era la porta, era la scelta più logica, lei dava in quella direzione e quella era l’unica direzione nella quale avrei potuto non perderla di vista troppo presto. L’orologio segnava le dodici e venti ma non saprei dire se fosse presto o tardi, ne se fosse mezzanotte o mezzogiorno, non contava, l’unica cosa che qui contava i minuti era quella che meno contava nella realtà, sottile ironia.
L’unica cosa che incontrai camminando fu ad un certo punto una sedia, sola abbandonata di lato e a terra poco più avanti piccolo peso conico di quelli usati nei laboratori di fisica, niente altro. Poi pian piano la luce cominciò ad aumentare, gradualmente. In un primo momento non me ne accorsi neppure ma mentre la luce aumentava il nero lucido del pavimento appariva meno nero, meno lucido virando lentamente verso un marrone opaco e compatto, mentre la luce aumentava dal marrone compatto salivano fili d’erba prima isolati poi sempre più frequenti, poi nel tempo divenne un prato ed il nero sopra divenne un azzurro quasi accecante popolato di solitari e bianchi nembi, pareva il cielo d’estate ed il verde dell’erba era così lucente da essere quasi anch’esso accecante.
Passai accanto ad una tenda ma non mi fermai ad osservarla, osservai il fiore che vi era nato accanto, una margherita gigante bianca ma ancora non mi fermai a vedere quel fiore perché poco più avanti c’ero io, o il mio corpo, o una mia nuova rappresentazione. Non ero bambino e non ero il giovane invecchiato che vidi nello specchio, ero io.
Immobile sdraiato nell’erba accanto ad un fuoco spento. Seguii l’istinto, niente altro e mi sdraiai non accanto ma dentro me, compenetrandomi a quel corpo. Chiusi gli occhi.
Quando ho aperto gli occhi, poco fa ero ancora in quel prato, tra le mani una copia di “Alice Nel Paese Delle Meraviglie” nella versione originale illustrata da Sir John Tenniel, è aperto su una delle prime pagine “Alice, key in hand, finds the door to Wonderland/Alice, chiave nella mano, trova la porta del paese delle meraviglie”. Non ho ancora iniziato a leggerlo, ma credo non lo farò, credo di averne già visto abbastanza per ora, per il futuro invece non c’è certezza alcuna.
Ora voglio solo andarmene di qui, voglio camminare, seguire questa strada di gialli mattoni ovunque essa porti.
La porta del paese delle meraviglie – Parte quarta
di Stefano Giolo 14 Maggio 2015
Mi trovavo lì, immobile, alle mie spalle un mondo, di fronte una porta verso un altro, l’istinto urlava dentro urlava fuori urlava di chiuderla per sempre.
L’istinto posò la mia mano, il palmo della mia mano sulla superficie di legno marrone liscio freddo. La pelle del mio palmo caldo sul freddo del legno liscio marrone. Il cuore batteva forte ma calmo ma forte ma calmo batteva il cuore.
Mentre i muscoli del mio braccio iniziavano a tendersi lievemente prima della spinta il mio sguardo cadde oltre la fessura tra la porta ed il nulla e fu quello il momento in cui cambiarono le cose, cambiò la scelta.
Guardai nella fessura che c’era tra la porta, priva di stipiti, e il rettangolo che ne definiva le dimensioni. Sul lato in cui era aperta lasciava vedere il pavimento nero e lucido della stanza all’esterno -o all’interno, non saprei dire- nella mia mano destra il bicchiere tremò un secondo ed abbassai la sinistra allontanando il palmo mentre le mie dita di riflesso si piegavano lievemente tremando.
Dietro di me infuriavano i pappi dei pioppi come in una bufera senza vento, infuriavano e cadevano e volavano e imbancavano ancora.
Guardai la mano abbassarsi come fosse quella di un altro, come se fosse quella di un automa.
Indugiai ancor una volta a guardare come la porta non avesse spessore vista di lato e cessasse di esistere vista da dietro, come il buco da cui avrei potuto passare fosse tale solo visto di fronte. Poi aprii la aprii del tutto, bevvi d’un fiato il contenuto del bicchiere, lo posai a terra accanto ed attraversai il passaggio.
Mi parve che la stanza oltre la porta avesse delle lampade in fila sul soffitto, mi parve vi fosse una enorme quantità di porte attorno ma mi sentii un secondo mancare, mi girò la testa come quando si è ubriachi e le porte improvvisamente si allinearono come fossero state una visione sdoppiata di una sola riflessa sul pavimento, le lampade scomparvero anch’esse e tutto divenne il riflesso del passaggio della luce proveniente dalla porta, ed io al centro del riflesso a barcollare.
Un pappo volava e per un’istante sembrò un gigantesco cristallo di neve, vi vidi dentro prima la forma frattale tipica di un cristallo, poi tornò ad essere quello che era ma al centro vi era un piccolo omino appeso come ad un ombrello volante, mi parve di conoscerlo ma poi lo scordai. Lo vidi allontanarsi avanti lontano da me, in direzione retta fino a scomparire.
Mi ripresi solo quando alle mie spalle scomparve silenziosamente la luce e ne scomparve il riflesso. Ero in un ambiente piuttosto buio, la flebile luce che mi permetteva di vedere era diffusa e non proveniva da una direzione, mi voltai a guardare e vidi un grande specchio, una porta a specchio con la maniglia sulla destra, ma questa volta con gli stipiti.
Provai a ruotare la maniglia ma sembrava inamovibile.
Girai attorno e vidi che non era invisibile e priva di spessore come lo era stata dall’altro lato, il retro era un pannello di ebano perfettamente liscio, senza il segno degli stipiti ma già immaginavo si sarebbe comunque aperta in qualche modo pur non muovendo l’ebano stesso. In basso sembrava raccordarsi perfettamente al pavimento con una lieve curva passando dall’ebano all’ossidiana del pavimento perfettamente liscio e lucido.
Tornai di fronte allo specchio e mi fermai ad osservarmi al centro. Fu quello il momento in cui mi accorsi di non ricordare il mio volto, di non sapere che volto o che corpo aspettarmi di vedere. Avevo l’impressione di essere stato un ragazzino ma ora mi vedevo adulto, le rughe sul viso davano l’idea di una persona ancora giovane ma segnata dal passato o forse dal presente. Le occhiaie scure dicevano che non dormivo da molto, ma in effetti da quanto tempo ero qui? E dove era questo qui? I capelli rasati e radi erano brizzolati come la barba con il pizzo lungo ed i baffi arricciati all’inglese, portavo una giacca elegante blu con finissime righe bianche su una camicia azzurra e dei jeans un po’ troppo sportivi per le scarpe marroni eleganti che indossavo. Dalla tasca della giacca usciva la catenella di un orologio a pendolo ma mentre provavo ad estrarlo mi spostai leggermente di lato e la mia immagine cambiò, in modo veloce ma uniforme come se i tratti somatici cambiassero in modo continuo mi ritrovai a guardare l’immagine di un coniglio bianco in doppio petto con in mano un orologio da taschino, un coniglio in qualche modo antropomorfo ma pur sempre un coniglio. Mi spostai nuovamente al centro e tornai uomo adulto, mi spostai a sinistra e divenni coniglio, mi spostai ancora a sinistra e il coniglio divenne progressivamente una ragazzina, prima il volto e poi il corpo si trasformarono, mi sovvenne un nome, Alice credo, ma era solo come quando un ricordo fa capolino e poi per timidezza si ritira senza mostrarsi. Rimasi a guardarla un attimo in precario equilibrio, ricordavo di averla sognata, averla rincorsa o era solo un parto della mia mente? L’immagine riflessa di un desiderio?
Mi sbilanciai e mentre facevo perno su un piede per riprendere una posizione di equilibrio mi spostai ancora più a sinistra e vidi alla mia destra qualcosa accadere.
Comparve un ragazzino delle elementari, comparve fisicamente, accanto a me e guardava lo specchio. In quel punto ero ruotato di circa 45 gradi rispetto alla sua superficie e quindi potevo perfettamente vederne il riflesso accanto al mio riflesso, erano l’immagine della stessa persona, o di me forse, di me come forse stavo ricordandomi. Portavo i capelli corti, con la riga da un lato, addosso avevo un grembiule blu da scuola elementare, le scarpe erano nere di vernice e le calze lunghe arrivavano poco più in basso del ginocchio, poco più in basso del blu. Mi mossi leggermente più a destra e tornò Alice e scomparve i bambini, sia quello riflesso che quello apparentemente fisico che il riflesso di questo. Mi spostai più a sinistra di quanto fossi prima ma il mio riflesso usciva dal campo visivo, così tornai a far comparire i tre bambini, i due riflessi e quello con un corpo. L’ultimo lo vidi allontanarsi dandomi le spalle come non si fosse accorto di me, camminava di sbieco rimanendo sulla linea dei quarantacinque gradi e feci lo stesso, era come un irrefrenabile istinto a spingermi a farlo, camminai diversi metri prima di girarmi di scatto, e quando lo feci vidi che lui stesso si era girato al contempo e mi osservava, faceva i miei stessi movimenti, identici. Provai ad uscire dalla linea che avevo seguito, mi spostai poco più avanti e poco più indietro, lui si spostava con me e quando non eravamo sulla linea lui scompariva.
Tornai seguendo lo stesso percorso fino allo specchio, lui mi seguì imitandomi come fosse il mio riflesso o come se io fossi il suo. Tornati allo specchio rimanemmo ad osservarci qualche minuto e poi allungammo la mano come per toccarci, ci fermammo un istante prima della linea immaginaria che ci avrebbe permesso di toccarci, poi allungammo la mano e ci attraversammo come fantasmi.
Toccai invece la maniglia della porta, e la ruotai.
La porta del paese delle meraviglie – Parte terza
di Stefano Giolo 11 Maggio 2015
Ero ancora lì, accanto alla porta in attesa di un ricordo per sapere cosa attendessi, in attesa che un’attesa terminasse mentre terminava quello che veniva proiettato sullo schermo, non mancava molto al termine quando iniziò a nevicare nel bosco.
Nevicava ovunque nel bosco ma non nella casa di bosco, la neve si posava lieve e immobile ma non si accumulava, cadeva ancora. Non che ci fossero finestre da cui osservarla, non che ci fossero pareti a proteggere ma non c’era ne caldo ne freddo, ne vento ne bonaccia, e nevicava attorno e sopra e sotto e ovunque ma non nella casa che non era una casa. Nevicava.
Pensai per un momento, pensai che era strano non ci fosse freddo, e pensai che avrei voluto aprire il mobile accanto al divano, e che avrei voluto bere un Ballantine’s, che era un tempo infinitamente breve e lungo che ero qui, che avrei voluto chiudere quella maledetta porta una volta per tutte, che non sapevo cosa stavo aspettando e perché e che quindi era stupido non chiuderla e mentre osservavo cadere la neve cadere i pensieri cadere i ricordi di perché mi sentissi vagamente svenire, come io stesso fossi neve che lentamente scende come se io fossi in qualche modo mondo e questo mondo fosse me si mosse il mobile accanto allo schermo, si aprì, ne uscì una bottiglia di Ballantine’s che si versò in un bicchiere, la bottiglia alzata si sciolse e si versò nel bicchiere divenendo liquido ambrato, non più di due dita.
Feci in tempo in un balzo a guardare la porta chiudersi, lanciandomi verso di essa per fermarla in tempo per infilarvi il braccio e vederlo tranciare tra lo stipite d’aria nulla e la porta e getti di sangue solo per metà attraversarla di lato e per metà colorarla di rosso subito prima di svegliarmi sul divano.
La proiezione dava i titoli di coda e attorno a me infiniti pappi dei pioppi stavano scendendo ed imbiancando il mondo, la casa, il bosco, scendendo lentamente e portando con se la mia mente come fossi io stesso parte di tutto questo scendere, di tutto questo cadere, pensai che avrei voluto bere un bicchiere di Ballantine’s, pensai che c’era stranamente freddo quasi come fosse neve a cadere, pensai che forse era ora di chiudere quella porta che forse era il momento di andarsene. Non vi era un confine tra la casa ed il bosco le pareti erano bosco e il bosco era bianco e le pareti erano bianche e tutto era bianco tranne il divano arancione al centro di questo universo e la porta.
Chiunque fosse Alice, mi sentii un coniglio.
Mi versai un bicchiere dal mobile accanto e mi avvicinai alla porta.
Posai la mano sulla porta e poco prima di muovere il braccio per spingerla allungai lo sguardo oltre.
La porta del paese delle meraviglie – Parte seconda
di Stefano Giolo 5 Maggio 2015
Ti seguii per lungo tempo, tra i tuoi salti i tuoi scherzi ed i tuoi impegni a correre, correre senza sosta a perdifiato con quell’orologio in mano, eri la mia Alice ed eri quel bianco coniglio, eri colei di cui anche in assenza potevo innamorarmi incontrandoti e vedendoti ovunque tu non ci fossi e quel simpatico e frettoloso e saltellante animale.
Mi mancò il fiato d’un tratto però, non per la corsa in se, ne per il tuo continuare a saltare e cambiare direzione, ne per l’assenza del tempo o la mia incapacità di raggiungerti, d’un tratto mi mancò semplicemente il fiato. Ricordo che fu forse quando compresi il colore dei tuoi occhi, o forse quando mi accorsi che in tutto questo sembravi fuggire da qualcosa ma non esattamente da me, o forse quando notai le tue sopracciglia non curate e per questo perfette.
Non ricordo perché mi ero già complicato e tre per tre faceva nove come nove diviso tre faceva ancora tre. E i ricordi arrivavano saltando perché mi ci scontravo e se ne andavano scendendo perché rimanevano lassù da qualche parte.
Fu mentre mi trovai senza fiato che vidi le tante porte, in una sala bassa e lunga illuminata da lampade che pendevano dal soffitto, erano tutte uguali e dietro me non c’era che una porta ulteriore chiusa.
Pensai di fare il giro di tutte le porte ma una di queste aveva nella toppa una piccola chiave d’oro.
Girai la chiave ed entrai nella porta.
Attorno a me foresta e boschi, monti, odore di quel fuoco che da tempo ruota nei miei sogni inconsci tra il sonno e la veglia tra il dormiveglia e il sonno, e il suono e l’odore di ogni foglia ed un comodo divano, una stanza ed un bosco e il tutto di un universo compenetrato con la quotidianità di una abitazione senza pareti. Voltandomi vidi la porta, non chiusa, non aperta, ne appoggiata: socchiusa con uno spiraglio di luce entrare. La porta tuttavia era in piedi immobile fissa ma priva di parete.
Potei girarvi attorno ed osservarla da un lato presente e viva con lo spiraglio di luce delle lampade che entrava e lasciava il suo segno sul pavimento, dall’altro scompariva inesistente introvabile introvata impensata. Per un’istante me ne scordai o forse non era mai stata lì e mai ero passato da quello strano mondo a questo mondo strano, non ricordo effettivamente come andò, ricordo che camminai e mi ritrovai accanto una porta, non aperta, non chiusa, ma socchiusa, non più introvata ne impensata ma presente, la toccai ed era reale in questo casa priva di pareti e ricca di boschi, vi girai attorno e scomparve, nuovamente o per la prima volta?
Non lo ricordo.
Ma trovai una porta d’un tratto, socchiusa e mi sedetti sul divano ad osservarla, nel televisore davano un cartone animato e ricordo che ti riguardasse ma non ricordo di averlo visto prima, parlava di una bimba opposta a te fisicamente ma col tuo sorriso e la tua libertà e leggerezza, una bimba dal vestito azzurro ed i capelli lunghi biondi in uno strano mondo di funghi e carte e bruchi e conigli ed aspettai.
Aspettai accanto alla porta, dove non importa il tempo assente, il tempo veloce e fuggente, dove non importa alla porta chi porta qualcosa o chi non porta, non importa. Ciò che importa resta la porta, ancora aperta per un po’ e l’attesa di qualcosa che non si sa cosa sia, di qualcuno che non si sa chi sia ma si sa che sei tu, coniglio, Alice o orologio che sia, rimasi in attesa di te consapevole che quella piccola chiave d’oro era ancora la fuori, che forse tra un salto e l’altro avresti scelto, o forse no.
Non importa. Comunque sia è una porta ed essa porta verso un nuovo mondo mio tuo o nostro non importa, le porte sono infinite ed io attenderò ancora, dietro questa finché finirà questa proiezione e poi…
La porta del paese delle meraviglie – Parte prima
di Stefano Giolo 23 Aprile 2015
Ti vidi su di una panchina, abbracciata a tu sorella la quale leggeva, rimasi ad osservare il tuo volto pieno e vivo come quello di chi non sa soffrire che per istanti nonostante fossi seria ed annoiata, ti osservai sbuffare da lontano nascosto dietro un cespuglio.
Incantato ed incapace di mostrarmi, di parlarti, di palesare la mia presenza. Tante volte ti avevo immaginata, avevo osservato altre mentre non c’eri immaginando fossi tu e lasciandomi innamorare anche della loro presenza nella tua assenza, immaginarmi te davanti a me a muoverti e correre e sorridere, osservare i -non- tuoi capelli muoversi e saltare e supporre di conoscerti ed ora ero lì a guardarti finalmente di nuovo. Immobile bloccato.
Ero lì mentre passò quello strano coniglio: “Povero me, povero me! Farò tardi!” diceva, e quando il coniglio tirò fuori l’orologio a cipollotto dal doppio petto vidi il tuo sguardo stupito ma non come chi vede qualcosa di assurdo, stupito come qualcuno che vede qualcosa di bello ed inaspettato ma non incredibile, uno sguardo così naturale da rendere naturale a me il vedere questo strano personaggio saltellare di tutto punto vestito.
Ti osservai da lontano seguirlo, forse un po’ geloso lo ammetto perché lui si era palesato anche se involontariamente, ti osservai osservarlo entrare nella sua tana e pochi istanti dopo cadervi dentro.
Ti seguii.
Caddi o volai, non ricordo il vento dell’aria contro la pelle, non ricordo la paura della caduta se non per un’istante, era come se invece di scendere fosse il mondo a salire ed io immobile, vidi credenze e mobili, comodini, mi parve di cadere o salire miglia e miglia, non ti vidi più mentre scendevo e forse neppure dopo non lo so perché cominciai d’un tratto a complicarmi.
Ricordo di non ricordare cosa pensassi nell’istante stesso in cui lo pensavo e di ricordare ricordi passati di passati invissuti, ricordo che come al solito quando mi annoio cercai di calcolare cose, la velocità di caduta in base a punti di riferimento, la larghezza del corridoio verticale che mi pareva scorrermi addosso, ricordo di aver provato a calcolare quanti anni avessi ma non ricordavo quando fossi nato, e di contare quante dita avessi ma dopo essere arrivato a ventitré ricominciai e arrivai a due, e provando nuovamente erano quindici o trentatré ma poi ricordo di non ricordare se davvero quelli fossero i numeri e poi pensai che era una buona idea provare a calcolare i miei anni e mi fossi ricordato quando sono nato o quanto veloce andasse il suono, non ricordo eco o effetto doppler ma ricordo che i pensieri rimbalzavano sulle pareti e se pensavo verso il basso i pensieri correvano correvano senza tregua e se pensavo verso l’alto dimenticavo in fretta cosa non so perché non lo ricordo.
D’un tratto il pavimento o il terreno o il dove stavo andando mi raggiunse.
Mi ritrovai seduto.
Poco lontano un coniglio stava allontanandosi, indossava un doppio petto e reggeva con una zampa un orologio a cipollotto, sembrava agitato e frettoloso “Orecchi miei, baffi miei, come è tardi!” disse e si voltò un istante verso di me, ma non aveva baffi, non aveva orecchi o forse si nascosti da quei suoi bei capelli che contornavano un volto umano e dolce, pieno e vivo come quello di chi non sa soffrire che per istanti per nulla serio o annoiato, e perché avrebbe dovuto poi esserlo, ma neppure pieno della tensione e della fretta di chi corre per qualcosa che non ha scelto, il tuo sorriso era quello di chi sa cosa sta facendo e con la frenesia della gioia di fare, la gioia dell’inquietudine del non saper stare con le mani in mano e correvi, correvi, correva con quell’orologio il coniglio bianco dal volto umano, correvi lontano ed io dietro te con il tuo sorriso dentro.
Vattene, pre ferisco
di Stefano Giolo 22 Aprile 2015
Vattene lontano da me.
Lontano come oltre la vita, oltre la morte.
Lontano.
Ricordo ancora come fosse oggi la prima volta che ti incontrai, lo ricordo più di quanto la mia mente sia in grado di ricordare gli anni, i decenni ed i secoli che intercorrono tra quel momento ed oggi.
Ricordo ogni singola piega della pelle del tuo volto, del tuo collo, ricordo il movimento delle tue mani e la delicatezza delle tue dita, ricordo ogni sfumatura che i tuoi capelli illuminati dal sole presero quel giorno, ricordo il tuo modo di muovere le labbra e la semplicità del tuo sorriso che faceva apparire naturale essere felici in questo mondo oscuro e nero, ricordo il sorriso che si disegnò sul mio volto, i muscoli della faccia che non potevo osservare ma che si tendevano incontrollabili a segnalare che qualcosa dentro di me stava cambiando, che qualcosa nella mia vita non era più ciò che era stato.
Non sono mai stato una persona buona ma ho lottato sempre per il bene fino a quell’infausto giorno lontano perso disperso e vivido secondo solo all’incontrarti la prima volta.
Lottavo per un dio che non ci assiste, che non ci ama, che non ci guida, che non serve più, che avevo smesso di credere dopo quel giorno e che ora mi osteggia, mia nemesi e contrapposizione.
Lottavo per lui col sangue ed il legno, col sangue e la spada, col sangue ed il sangue anche quando con una mano ti allontanai per seguire quella che credevo una missione più grande, dicendoti che non era quello il nostro tempo, che la mia missione non era terminata ancora.
Fu al mio ritorno che non ti trovai.
Fu al mio ritorno che rinnegai me stesso e questo dio.
Fu al mio ritorno che compresi quanto la solitudine si fosse impossessata di me nel profondo.
Fu al mio ritorno che invece di allontanare da me il calice della sofferenza ne bevvi avidamente, bevvi sangue e veleno e veleno e sangue e giurai morte e sofferenza e giurai vendetta a quel dio che mi aveva privato della tua dolcezza e della tua purezza.
Giurai vendetta a me stesso.
Ritrovarti, dopo secoli è stato invece il terzo istante della mia vita, ed è stato l’istinto a spingermi a te, a farmi desiderare di godere della tua essenza cambiata, più oscura e sofferta, tu stessa rinnegata al mondo e le mie labbra fremono per assaggiare il tuo sangue, assaggiare il tuo vuoto, penetrare il tuo vuoto con ciò che guida il mio lato più oscuro.
Vattene lontano da me.
Lontano come oltre la vita, oltre la morte.
Lontano.
Perché me ne andrò ancora, perché non è questo a cui ciò che ero ambiva e ti trascinerei con me in questo vortice di inesistenza.
Preferisco, pre-ferisco, strappare la mia anima ancora -perché perduta in altri mondi- che nuovamente trascinarti giù da quella torre dove il fiume non ha ancora pulito il tuo sangue.
Vattene lontano da me o mi distruggeranno, e distruggeranno te, e il nostro nulla non sarà mai pace, non sarà mai.
Immergersi in te stesso (edited)
di Stefano Giolo 16 Aprile 2015
*il racconto è stato modificato dopo la pubblicazione iniziale*
Non è buona norma in genere immergersi in solitaria, in tutti i corsi insegnano a scendere sempre con in compagno ma d’altronde sono molte le cose che non è buona norma fare, ad esempio scendere con un bombolino ean 70 in una immersione profonda, ad esempio, ma non credo che nessuno dei due rappresenti un problema per l’attività che ho scelto di fare oggi.
Questa è una bella sera di una stellata come poche volte se ne vedono, complice l’inverno e lo scarso turismo la gran parte delle luci sono spente e questo permette di vedere il tutto illuminato solo dagli astri e dalla luna che sta salendo lentamente all’orizzonte tra i monti. L’aria è frizzante e viva, e l’acqua assolutamente calma, un’ottima notte per un’esperienza come questa.
La preparazione dell’attrezzatura come sempre è veloce ma meticolosa, non vorrei avere qualche genere di imprevisto che mi tolga la calma assoluta che ho dentro.
La bombola è piena ma non credo mi servirà, il bombolino ben agganciato e con l’erogatore chiuso, i formalismi sono importanti.
La torcia è ben carica, della secondaria non credo di averne bisogno ma è qui nella tasca del GAV non si sa mai, giusto? Fermo un passante per chiudermi la muta stagna, pulisco la maschera e sono pronto.
Le panchine sono sempre un ottimo aiuto per un subacqueo, niente di più comodo che sedersi, allacciarsi il gav, la bombola, prendere in una mano il bombolino e la maschera, nell’altra reggere la torcia e le pinne, alzarsi e camminare verso lo scivolo di alaggio per le barche.
Ho fatto centinaia di volte questa immersione e la conosco ormai più del giardino di casa ma è da sempre la mia preferita: qui ho imparato e qui voglio stare per sempre.
Con l’attrezzatura sulle spalle scendo in acqua lasciando i vari oggetti minuti sul bordo dello scivolo, l’acqua non è fredda come mi aspettavo e questo è molto positivo. Indosso la maschera e faccio un paio di prove creando depressione all’interno ma entra aria quindi non è messa bene, la ricontrollo, la sistemo, perfetto. Ora prendo dallo scivolo le pinne e le indosso, questa è una delle cose più comode di questo punto di immersione, puoi stare in piedi tranquillo a prepararti in acqua ma la profondità aumenta velocemente spostandoti di pochi metri. Un’accoppiata vincente.
Controllo l’aggancio del bombolino al GAV e sono pronto: tutto è in ordine.
Mi guardo intorno, mi viene spontaneo fare il gesto di ok con il pugno sulla testa ma questa volta non c’è qualcuno a cui segnalarlo, alzo il corrugato, svuoto e scendo.
Ci vogliono solo pochi istanti e mi trovo a cinque metri, mi viene da sorridere pensando che ho dimenticato di portare la boa di segnalazione, anche questa è una di quelle cose che non si fanno ma non credo sarà un problema per nessuno.
L’immersione, il mio percorso preferito almeno, inizia scendendo qualche metro seguendo una sagola che parte dalla base dello scivolo di alaggio verso il largo, questa porta ad un piccolo canyon che lascia presagire l’immensa bellezza che da lì a poco colpirà il mio sguardo e la pace che porta.
Di notte si vede poco oltre a due pareti di roccia ognuna a pochi centimetri dalla spalla, potrebbe fare impressione detto così ma quaggiù è un altra cosa, tra queste due pareti si vedono scendere rapidamente le rocce da una decina di metri a oltre i trentacinque, di fronte il blu scuro assoluto, dietro le pietre della spiaggetta.
Ed è nel blu che bisogna andare, questo canyon in genere fa effetto di sfogo per le correnti e mescola i termoclini con il movimento di acqua che si incanala. Fermandosi all’inizio a volte sembra di avere il vento freddo tra i capelli ma non questa sera perché di inverno l’acqua in superficie non è sufficientemente calda ed i termoclini sono di conseguenza meno marcati. L’emozione di scendere da questo punto in ogni caso resta sempre unica. In pochi secondi sono a trenta metri, carezzo la valvola del bombolino ma non è ancora il suo momento: ora posso guardarmi attorno; il canyon scompare in alto e qui il buio è più forte, si vede solo quello che viene illuminato dal cono luminoso della torcia e puntando verso sinistra, verso il largo, la luce non può nulla contro l’oscurità infinita della notte. A destra invece le rocce color sabbia chiara mi sovrastano ed in un anfratto c’è il presepe, forse il punto di immersione più famoso da queste parti. Lo saluto rimanendo a guardarlo ancora qualche minuto mentre attorno non c’è alcun suono al di fuori delle bolle che escono dal mio erogatore. Ritmicamente. Circa ogni otto secondi.
Questo è ciò che vengo a trovare qui ogni volta: il silenzio così diverso dal silenzio del mondo di sopra, così diverso da ogni silenzio. Talvolta ci sono suoni, molti, ma pur sempre in qualche modo educati: quando l’acqua è mossa si sentono le rocce cozzare tra loro, i sassi muoversi con quel tipico suono secco e acuto che somiglia a quello che fa un accendino quando si accende, ma più acuto, più breve e secco. I suoni sott’acqua si propagano molto più velocemente che nell’aria, tanto da impedire di capire la direzione da cui provengono, ad esempio il suono dei motori delle barche somiglia a quello di una mosca che voli in modo costante, e anche questo se non lo si conosce è impossibile da comprendere, e non si riesce a capire da che parte arrivi, da che parte vada. I suoni qui ti avvolgono, e come essi sei parte del mondo, sei parte del mondo come il mondo è parte di te.
Allontanandomi dal presepe scendo di pochi metri e mi sposto, dovrei trovare qualche sette nano dallo strano nome, i subacquei hanno un umorismo particolare, il più famoso e storico si chiama “embolo” credo sia il più significativo oltre ad essere il primo che ho incontrato. Scendendo più in profondità, oltre i quaranta metri i riflessi cominciano a rallentare, tutto ciò che può essere tensione nel mondo di fuori qui dentro è così lontano, assente, così insignificante da scomparire. Non come se si rimpicciolisse e ridimensionasse ma proprio come se la superficie dell’acqua fosse un portale tra un universo ed un altro e tutto rimanesse nel proprio. Qui non esistono. Penso sempre all’immagine di “Stargate” nel momento in cui mi sto immergendo, c’è una consapevolezza diversa, una calma, un rilassamento che credo possa esserci simile solo nello spazio siderale. L’adrenalina non esiste ed il cuore batte lentamente, il respiro è lento e regolare, chiudendo gli occhi sembra quasi di sciogliersi e mescolarsi e far parte di questo tutto, ci si sente un niente parte di un tutto e al contempo un tutto con tutto.
Puoi vedere pesci muoversi lenti ed avvicinarsi curiosi, consapevoli che tu non sei un pericolo, a volte sfiorarli, puoi essere uno di loro, toccare i gamberi sotto quello che per noi è il collo e vederli muovere le zampette, puoi vedere cuccioli protetti da adulti ed infilarti in foreste di piante verde fluorescente, o osservare il modo sinuoso con cui le anguille avanzano, peccato che in genere duri poco meno di un ora prima di dover risalire per l’aria o per la saturazione dell’azoto che sia, ma non questa volta.
Il computer segna 66 metri, lentamente apro il bombolino, con un EAN 70 l’ossigeno-tossicità dovrebbe essere stata sufficiente a stordirmi a trenta metri a più di sessanta non dovrebbe volerci molto, ma il fondo qui supera agevolmente i cento e nel frattempo continuerò a scendere. Per sicurezza ho indossato molto più dei pesi che utilizzo in genere. Mi tolgo il gav, lo faccio ruotare davanti a me respirando ancora dalla bombola dell’aria, che nel frattempo chiudo. Ho ancora un paio di respiri prima che non esca più nulla, il tempo di rimettere il gav, e iniziare a respirare dall’erogatore del bombolino.
All’inizio sembra tutto normale, ma non potevo aspettarmi come diceva il mio istruttore che fosse “un colpo di pistola”, nulla nel corpo umano è così secco ed immediato credo, non che sia un medico, conosco solo quello che riguarda la subacquea, mentre scendo oltre la zona sabbiosa mi si avvicina un luccio enorme, sembra guardarmi ed io lo guardo, mi ruota attorno e si mette a testa in giù come un delfino, mi fa ridere e le bolle che escono dal mio erogatore lo fanno fuggire, o forse era già fuggito prima che ridessi non ne s ono troppo ss icuro, il tempo sembra scorrere strano.
D’un tratto mi accorgo di avere i piedi in alto e di aver toccato il fondo con la testa, è un attimo poi mi giro mentre passa un altro luccio, questo non sorride. Forse è quello di prima.
Ho forse, il dubbio che potrebbe non essere il luccio delfino il ruotavo io? Ruotare? Il fondo. Sto respirando, e questa cosa sulla bocca, in bocca, mi infastidisce come un peso come una maschera di ferro di un re imprigionato. La tolgo e sto volando, in assenza di peso posso muovermi come si muovono gli uccelli, posso fluttuare nell’universo e attraversare mondi o essere io mondo attorno a me nubi belle color della sabbia si alzano mi impediscono la vista e poi si spostano e si muovono, sembra di essere nel cielo e uccelli senza ali mi guardano e ridono. No non ridono le ali ma gli uccelli, insomma quelli lì, non li vedi?! Quelli lì.
Ridono e io rido con loro, rido a crepapelle come un matto mentre Embolo che è sceso qui da me mi saluta, e quello? Quello sembra Giuseppe che cammina con Maria o sono due pesci o sono le mie mani che si allontanano verso un dove che non so e vedo i fiori sul fondo e i prati verdi poi più nulla e fiori che divengano grandi grandi grandi come mondi e dentro i fiori tanti fiori con dentro fiori grandi e poi nulla.
Credo che gli occhi abbiano iniziato a ruotare verso l’alto, insistentemente. Mi fanno male mi fanno male come volessero girarsi dentro come dovessi guardare dietro ma non potessi girare la testa?
Non mi sento più nell’acqua, non mi sento più. E vedo dentro, credo che gli occhi siano girati davvero dentro e vedo dentro di me.
Ho sempre pensato che le immersioni portassero all’introspezione quanto la meditazione, che aiutassero a rilassarsi e parlare con se, con l’io profondo a vederlo ed affrontarlo lontano dalla realtà, ma ora vedo dentro me! Voglio dire, vedo direttamente il cervello, il cervello e i suoi tarli, con le loro zampette e le loro alette lunghe e striate, vedo insetti muoversi sulla superficie, dentro attraverso buchi, mordere, mordicchiare, ne sento il rumore, crick crick, guarda quello! Ha il volto di Lei e sta mordendo proprio in mezzo credo ci sia la parola lì, se ho un ricordo vago di queste cose e quello lì? Sembra così triste e solo, scontroso con quell’aria superiore, ha due baffoni buffi ed un piccolissimo orologio a cipollotto e morde anche lui qua e là, dentro, profondo. Dietro lui una lunga scia che attraversa più parti del cervello, ed eccone un altro curioso che muove la testa come a ritmo perso in se stesso e fa i suoi buchi con un trapano a meno invece che mordendo. Sento come di non avere più un corpo e mi sento risucchiato dentro, come dicono debba essere in un buco nero mi sento allungare, allungato all’infinito come uno spaghetto a partire da quello che potevano essere i piedi infinitamente lontani e le caviglie chilometri prima e decine di chilometri indietro le ginocchia, centinaia il corpo e migliaia le spalle fino alla testa che tende a distanza infinita e sono liquido. Attorno a me infiniti dischi morbidi e rossi come cuscini tondi ed altri bianchi come sfere dalla superficie rugosa altri oggetti ancora rosa ma nell’insieme il tutto è di un rosso scuro e vivido, scivolo velocemente in questa specie di corridoio tondo pieno di vicoli, curve bivi e diramazioni, ogni tanto ci sono valvole da cui posso entrare e guardando dietro mi accorgo che non posso tornare da dove vengo spinto a intervalli regolari, ad ogni colpo più in là e come se sapessi dove andare come se fossi attratto da qualcosa nonostante i bivi mi sembra di essere organicamente unito in una sola entità. Accelero e rallento, accelero e rallento come spinto o trascinato, accelero e rallento, e il corridoio si fa sempre più stretto, in mille, milioni, miliardi di piccoli corridoi ed io pur sentendomi uno sono in ognuno di loro come diviso in infinite infinitesime parti di un tutto vedo infiniti corridoi, sono in infiniti infinitesimi corridoi e sento di essere spinto e attratto fino a raggiungere una superficie più solida dove i corridoi sono talmente stretti da essere indistinguibile l’essere ancora in corridoi o lo stare attraversando una struttura solida tra atomo e atomo. Sento di stare cambiando, sento come se non fossi più nell’acqua ma per un istante mi sento carne e aria e legno e nulla di tutto questo, mi sento fantasma che attraversa un muro e muro attraversato e nuovamente mi trovo in un lungo corridoio questa volta lineare e dritto.
Blu. Per qualche momento sembra una situazione stabile, ho il tempo di osservare attorno contemporaneamente in ogni direzione la superficie di questa galleria grigia e il blu che sono dentro di essa. La sento muoversi, non piegarsi, non comprimersi ma come se si inclinasse velocemente in una direzione, nell’altra, in un altra ancora e poi nuovamente mi sento risucchiato verso il basso, veloce sento il rumore di qualcosa strofinato, qualcosa che gratta su una superficie non liscia ma neppure molto porosa, non sono più nell’acqua perché sento le direzioni dei suoni ed è in basso questo rumore, a scatti come trascinato, ed è la direzione verso cui sto andando.
Mentre parte di me osserva ancora la superficie liscia osservo dove inizia il mio essere stringersi il corridoio, mi sento stringere tra due punte di metallo e comincio ad uscire, ad essere fuori su di una superficie bianca dalla quale mi sento attratto tanto da non potermi più staccare, sento di stare prendendo una forma sinuosa lunga interrotta a tratti, mi sento parte di qualcosa di più grande di me.
Resto lì qualche tempo immobile, mentre sento spostare la superficie su cui sono finito, sento di rimanere chiuso quando una superficie analoga viene appoggiata su quella che sento mia e poi di nuovo sento l’aria quando questa superficie non so quanto tempo dopo viene nuovamente allontanata. Poi come una pelle d’oca sento alzarsi qualcosa di me, lo sento elevarsi, allontanarsi, sento come di perdere il corpo se mai l’ho avuto e di essere essenza ed improvvisamente volo verso qualcosa, verso l’alto.
Non sapevo i tuoi occhi fossero così belli, così veri, così stupiti ma li vedo un istante e poi sento battere.
Tump, Tump, Tump, Tump.
Ho trovato casa.
Non portarmi con te ad un concerto, non sarò lì.
di Stefano Giolo 14 Aprile 2015
Sono stato a non so quanti concerti nella mia vita, e non so con quante persone nel tempo, nello spazio, tra le dimensioni.
I concerti per me si dividono in due macro categorie, la prima è quella in cui vado ad ascoltare musica, la seconda è quella in cui vado a incontrare musica.
Oggi sono qui, la folla mi attornia, di fronte a me una ragazza dai capelli ricci mi ricorda qualcuno, si muove come immersa nel mondo del suono, la vedo sorridere pur non vedendone il volto e ne riconoscerei il sorriso. Accanto a me una vecchia amica con cui condivido una passione del tutto musicale e di ricordi di mare, di monti, di tramonti Corsi e dell’odore di quel fuoco, e di fonte a lei immancabilmente la donna più alta del mondo a spostarsi ovunque lei vada. Due donne nascondono il loro affetto reciproco che non è d’amicizia pura e tra rockers e persone raffinate la folla si mescola in caleidoscopiche combinazioni di colori e di volti, persone si muovono all’unisono pendendo dalle labbra di una cantante non più così giovane come un tempo ma d’una carica immensa, ed io lì al centro di un mondo fino. Non saprei come descriverlo con una parola diversa. Fino come carta velina e sfocato e distante come lo sfondo di un ritratto in primo piano, io sono lì accanto alla sua voce, neppure il suo volto e niente esiste attorno, non esistono le braccia fini della ragazza di fronte a me, non esiste la mia amica, le due amanti, non esistono i metallari e le signore raffinate, i cartelli, e i salti.
Da fuori devo sembrare del tutto intontito, silenzioso, spento mentre dentro si muove un mondo di immagini colori e sensazioni e ricordi di mare di chitarre di un letto grande del volto di una vecchia amica che non vedo da troppo tempo e che continuerò a non vedere per troppo tempo ancora e che forse incontrerò un giorno altrove, da un altra parte in un altro quando dove e perché.
Non è così magra come un tempo sul palco la voce, formosa più di quando faceva preoccupare il suo pubblico e con quel vestito mi ricorda un altra voce accanto all’orecchio a suonare quella chitarra per me, all’orecchio, mentre con pezzi di specchio distrutto tra le mani cercavo immagini che mi dicessero chi ero e non le vedevo, le ombre ne nascondono il volto e le labbra si trasformano in quelle labbra che sapevano ascoltare e parlare e dire e amare pur senza amare ed essere salvezza costante. Sento quella chitarra acustica lontana da tutti i suoni entrare dentro come un pugno, come quel pugno che sentisti dentro un giorno davanti alla porta di casa quando pronunciai quelle parole. E scivolo nei meandri di altri istanti di un auto a vagare per ore nel nulla di un mondo che era tutto tra le due porte e nulla al di fuori.
“Accontentarsi di niente” è una frase che ruota nel cielo di questo ambiente chiuso azzurro di nuvole chiare d’un giorno d’estate tra i papaveri “accontentarsi di niente” in qualunque modo tu voglia leggerlo è la risposta. Tra lo scegliere di arrendersi o il lottare all’infinito e ruota nell’essere, nell’etere, come sdraiato sopra di me fiori a forma di mani a muoversi nel vento creato dai suoni ed il sole delle luci e dell’amore che viene scagliato da un palco quasi sputato di rabbia e per questo vivo.
Ho passato anni ad accumulare ricordi, ho passato anni a vivere mondi diversi unendo in me infinite esperienze cozzanti diverse intersecanti che esplodono in momenti in cui vivo la musica o creo e poi d’un tratto quasi un istante dopo essere iniziato, due ore e più tardi, le urla gli applausi ed accanto a me ancora la mia vecchia cara amica, le due amanti segrete e tutti gli altri mentre si accendono le luci ed è ora di tornare.
Navigando
di Stefano Giolo 9 Aprile 2015
Il turno di lavoro oggi è stato duro, più duro del solito e sento la stanchezza chiudermi gli occhi, apro i finestrini e metto l’aria al massimo per cercare di svegliarmi meglio per questa ultima mezzora di strada e poi potrò infilarmi sotto le coperte. Il termometro indica che fuori ci sono dodici gradi ed io indosso solo la t-shirt dell’Oktoberfest 2011, ottima situazione per svegliarmi fuori un po’.
Il navigatore da qualche giorno quando punto casa dopo un po’ sembra impazzire e mi indica un altro luogo, gli altri giorni questa cosa mi fa incazzare terribilmente oggi stranamente invece mi sento così rilassato, forse per questo misto tra stanchezza e freddo da sentirmi quasi inerte. La mente riprende a lavorare anche se gli occhi rimangono mezzo chiusi, e la testa mi
cade
non sono sulla strada di casa!
Mi sono distratto e come uno scemo mi sono messo a seguire l’indicazione sbagliata del navigatore che non so dove mi sta portando, indica un luogo a dieci minuti da qui, e stanchezza a parte non ho davvero molto da perdere, domani finalmente potrò starmene a casa almeno il mattino e a casa nessuno mi aspetta quindi quale miglior momento per fare una cosa scema?
Fermo al semaforo osservo le mie braccia scoperte, i peli dritti della pelle d’oca, tremo leggermente ma è un bene, mi tiene senza dubbio più sveglio, metto la testa fuori e respiro l’odore umido di questa serata, non mi ero accorto avesse piovuto, il respiro si addensa e dietro il respiro vedo il rosso del semaforo trasformarsi un verde. Sono in una zona della città che mi sembra terribilmente, ancora un paio di svolte e ci sono, chissà dov…
TUMPH
…una bambina?! Era una bambina! Ho investito una bambina? Cosa ci faceva in mezzo alla strada?
Scendo a controllare? Scappo? Non credo mi abbia visto nessuno, ma cosa ci faceva una bambina da sola in mezzo alla strada immobile, come mi guardasse, e poi era vestita completamente di nero, non fosse per quella pelle bianca cinerea non avrei neppure visto che era una bambina, avrei sentito il tonfo, e… e la macchina che si è alzata quando la ruota sinistra le è passata sopra.
La macchina che si è sbilanciata spingendo il mio corpo verso destra mentre la ruota le passava sopra.
Il rumore molliccio di qualcosa sotto la mia ruota sinistra che passava su di lei.
Il rumore della gomma che cigola su qualcosa di umido dopo essere scesa, dopo essere passata sul corpo della bambina.
E sto ancora guidando, il navigatore punta a casa mia, casa mia e rimbomba nella mia testa il rumore, lo spostamento del corpo la ruota il silenzio, non ho neppure frenato.
Sono a casa ora, non ho il coraggio di scendere di guardare il sangue che deve essere sul fanale, sulla ruota sulla ruota che ha schiacciato quel corpo sul fanale che ha spaccato quel corpo.
Scendo e guardo a terra la strada priva di segni, osservo il muso della macchina, anch’esso normale, liscio, senza ammaccatura, senza macchie, addirittura impolverato, la ruota normale, sporca di terra come sempre e di nient’altro.
Credo di aver sognato.
L’unica cosa è questa sostanza nera, come carta velina bagnata incollatasi sul paraurti come un adesivo umido, come le decalcomanie per i tatuaggi dei bambini prima che si asciughino, come foglie umide e fini portate dal vento e sferzate da ore di pioggia.
Passi
di Stefano Giolo 26 Marzo 2015
Ad ogni passo
-lento-
per quanto live corrisponde il suono frusciante della neve pressata al di sotto delle corde che costituiscono la racchetta da neve.
Le gambe -pesanti- proseguono nel loro lavoro incessante, il ginocchio dolorante si piega,
si alza,
permette al piede
-lentamente-
di salire, di alzarsi dalla neve, da quei centimetri in cui è sceso nonostante la racchetta che intanto si stacca dal tallone inclinandosi e lascia cadere
-piano-
la neve che vi si era depositata poco prima.
I muscoli della coscia hanno un solo breve istante di riposo mentre la gamba sta scendendo nuovamente verso il legno che stava tracciando un solco con il vertice dietro abbassato e torna orizzontale a sprofondare lievemente
-ha nevicato da poco-
e mentre il ginocchio diminuisce l’angolatura il quadricipite torna ad irrigidirsi per sostenere il peso del corpo
-gli acidi lattici-
si fanno sentire
-i chilometri-
le ore di cammino e la salita
-il freddo-
mentre arriva il momento di un altro passo che
-lentamente-
porta avanti ancora di qualche centimetro tra infiniti centimetri dietro in basso da un dove verso altrove molto più in là il freddo
-pungente-
come aghi di questi pini di cui l’odore si spande attutito dall’umidità a congelarsi entra nelle ossa col vento
le braccia intirizzite tremano lievemente
-ed il fiato-
si congela
-l’acqua-
il mondo col vento del nord che soffia bianco trito di ghiaccio a colpire gli oggetti
-il volto-
nel silenzio
-l’anima-
irreale dietro le urla tra le fronde degli alberi e si fa che spazio nella mente.
-gli occhi-
Un altro passo, una fitta al ginocchio, ancora uno e poi sarà di nuovo un adesso
-lentamente-
un fruscio della neve pressata mentre il piede comincia ad alzarsi
Quel tempo, la nebbia, la luna
di Stefano Giolo 23 Marzo 2015
Una luna fine nel cielo nero e privo di stelle, quasi privo di stelle. Solo una, sempre lei, in basso a destra della Luna. Credo sia Venere probabilmente quindi si, nessuna stella come in quelle notti.
Una lieve nebbia e il respiro che si addensa come una nuvola davanti alla mia bocca.
Non c’è freddo ma neppure è arrivato il caldo dell’estate.
Credo significhi qualcosa mentre dal giardino di casa resto immobile a guardarla.
Mi aspetto di vederti arrivare da un moment all’altro ma non guardo, non cerco. Osservo questa luna finissima come un sorriso storto, osservo quella stella o quel pianeta come un piccolo neo alla Marilyn in questo cielo a donare quel tocco di bellezza all’universo.
Il mio respiro si addensa, scompare, si addensa, scompare.
Sento la tua presenza qui, accanto a me.
Come se mi stessi pensando a tua volta, no di più sento la tua presenza qui accanto a me.
Poi torno in casa, chiudo gli scuri, guardo il termometro -dodici gradi- e comincio a scrivere nel cielo nero privo di stelle, della Luna. Fine.
La danza dell’essere infiniti
di Stefano Giolo 9 Marzo 2015
Sono passate alcune notti da che ti ho sognata, ma resta indelebile la sensazione mentre sfumano i ricordi come fumo nel vento.
Ricordo d’essermi svegliato immerso nella sensazione d’infatuazione con cui nella più piena adolescenza ci si innamora la prima volta, ricordo di essermi svegliato stupito dal sogno stupendo e perfettamente coerente appena fatto.
Volevo alzarmi dal letto e scriverlo per filo e per segno, con il suo inizio, lo svolgimento e la fine perfetta come mai avrebbe potuto essere una storia ragionata a tavolino, rimasi a letto a cullarmi del tuo ricordo inaspettato proveniente da non so quale recesso della mia mente.
Al mattino non ricordavo più nulla. Non ricordavo neppure di averti sognata, ma provavo quella sensazione di dolce inquietudine che si prova poco prima o poco dopo di un bell’incontro.
Sono andato a lavoro pensandoti, pensando perché ti pensavo, e poi d’un tratto il ricordo di quel sogno.
Non saprei ripetere il finale, e neppure lo svolgimento a dire il vero, ricordo l’inizio, lo svolgimento che era durato moltissimo invece lo ricordo compresso in una sensazione che non saprei spiegare.
Ero in una casa di pietra, saprei dirti anche dove probabilmente, ma più probabilmente è un dettaglio che la mia mente ha aggiunto a posteriori, c’erano molte persone, anche queste seppure nel sogno ci fossero potrebbero essere identificate con persone che potrei aver aggiunto a posteriori, ma poi c’eri tu, e di questo non c’è alcun dubbio.
Ci incontravamo come non ci vedessimo da moltissimo tempo, come è poi un dato di fatto, ma anche come fosse inaspettato. Immobili qualche secondo che potevano essere secoli a guardarci con lo sguardo tipico indeciso di chi non sa cosa fare e perché.
Poi come se tu fossi miglia lontana prendevi la rincorsa per abbracciarmi. Ricordo come fosse reale l’istante in cui il tuo corpo ha abbracciato il mio, è penetrato nel mio e si è fuso al mio, ricordo come la sensazione che tu stessi danzando con e dentro di me, come se ruotassi e la tua testa attraversata la mia facesse una capriola e con te me e il mio corpo e la mia mente compenetrati a te, vedevo dai miei occhi e vedevo dai tuoi e tu danzavi e mi danzavi, e ruotavamo e volavamo e non eri più tu od io a guidare era un tutt’uno con infiniti occhi infiniti orecchi, senza più un corpo fisico ma con un corpo fisico, senza più essere due ma senza essere uno, come due enormi palline di plastilina di colori diversi amalgamate, ricordo i colori diversi eravamo azzurri e verdi, eravamo blu e rossi ed eravamo una sfera e una forma mutante immutabile in movimento.
E poi il finale, bellissimo, è rimasto nell’oblio dei sogni scordati.
L’uomo nero
di Stefano Giolo 5 Marzo 2015
Non riesco a capire.
Qualcosa è cambiato, ma non focalizzo se a cambiare sia stato il mondo, lentamente, o la mia mente. Cammino, mi guardo attorno e vedo cloni, cloni di cloni, e altri cloni. Guardo il volto delle persone, i vestiti, i movimenti, gli argomenti. Cloni, cloni di cloni ed altri cloni.
Ogni persona che incontro, ogni persona con cui parlo, inaffidabile, presa dai pensieri di qualcosa che crede essere solo un suo problema ma che è identico ai finti problemi di tutti quelli che lo circondano, incapace di mantenere parola o attenzione. Manca il tempo, manca il tempo. Sembra che tutti vivano conquistati dagli uomini grigi di Momo di Ende. Un libro che oggi tutti dovrebbero leggere, ma che basterebbe leggesse uno perché uno è uguale a tutti. Almeno ho questo sospetto.
Non riesco a focalizzare.
Non capisco se ieri il mondo non fosse così, se sia cambiato nel tempo lentamente o se sia io ad essere cambiato.
Mi sento soffocare in questo mondo, mi sembra di giocare a carte all’uomo nero, o “la veccia”, quel gioco di carte in cui nessuna carta seppur diversa ha un valore, nessuna carta è diversa dalle altre tranne una. Non dico di sembrare quella carta diversa, ma la sto cercando, disperatamente.
Corro, corro senza fiato in questo mondo, ho un mazzo di carte, lo sfoglio, giro ogni carta, la guardo ed il volto è lo stesso, il vestito lo stesso, le parole che dice le stesse, provo a parlare a dire cose che smuovano l’anima “eretico, eretico” è il coro, “eretico” l’unica risposta.
Mi chiedo cosa sia cambiato, se sia una evoluzione od un’involuzione, mia o del mondo. O semplice stabilità. Pochi giorni fa ho il ricordo di aver avuto qualcuno accanto, qualcuno speciale, o forse era anni fa, poi l’ho guardato in volto ed era un clone, come gli altri cloni, cloni di cloni di altri cloni.
L’immagine è come svegliarmi con accanto uno di questi che smarrito s’allontani ed esca di casa in silenzio ed io a guardarmi allo specchio, ma non ricordo il mio volto, non ricordo di essermi guardato, non ricordo neppure se sia vero che sia accaduto, o che accanto a me ci sia stato qualcosa che non fosse un clone, non ricordo neppure se i miei ricordi siano reali o siano essi gli errori. Non mi sono mai ritenuto migliore o peggiore, ma fiero di sentirmi diverso, comune ma diverso o anche questo è un ricordo perverso innestato da chissà quale errore virus o malore. Non riconosco generi o colori o differenza alcuna tra ognuno di quelli che incontro, non riconosco.
Non riconosco.
Ad ognuno se chiedi come va la risposta è un freddo “bene.” se chiedi della famiglia “bene.” se chiedi del lavoro “bene.” e poi ognuno inizia con il proprio monologo argomentale da cui non si può uscire, né interagire, né discutere, né argomentare a propria volta. Il tema uno solo, l’unica cosa che differenzia un clone dall’altro è il tema. Niente altro.
Non ho più il fiato di correre, le gambe, le dita stanche alla ricerca di una carta che non trovo, scorrere avanti, indietro ancora ed ancora alla ricerca.
Ricordo un tempo di averne avute altre, in un cassetto e guardandole scopro che sono ancora identiche a tutto, a tutto.
Poi infine vado allo specchio e guardo il mio volto, mi chiedo come sto: “bene.”, come va al lavoro: “bene.” e mi siedo.
Dodici gradi
di Stefano Giolo 28 Febbraio 2015
Era una sera di quelle in cui la temperatura ti fa rabbrividire solo un istante, il respiro si addensava in una piccola nube prima di scomparire quasi improvvisamente, indossavamo tutti maglioncini leggeri o giacche leggere, ed era buio.
Moltissimo buio.
Ricordo l’aria frizzante di quella sera come fosse oggi, come fosse vera, e ricordo di aver girato la testa incontrando accanto ai miei occhi la mano di mio padre, la presi e la tirai leggermente verso di me, lui sembrava assorto a guardare nella stessa direzione in cui stavo guardando io solo pochi istanti prima.
Ho sentito la mia voce dire “papà, papà, ma chi è quella ragazzina”?
Era sulla strada davanti a casa mia, a terra, piatta come un foglio di carta leggermente raggrinzito, attorno a lei c’erano dei signori che non conoscevo e qualche mio zio o zia che non saprei definire, c’era anche la zia gilda, e quella signora che mi dava sempre le caramelle al miele. Entrambe signore anziane nel buio della sera si distinguevano solo per il fumo che usciva dalle loro bocche e che vedevo nonostante fossero di spalle salire qualche istante dalle loro teste.
Erano vestite di nero, con il velo in testa e quei vestiti tipici delle donne anziane delle zone rurali. Osservavano tutti la bambina schiacciata, quasi fosse disegnata a terra e il signore che con una spatola di ferro la stava staccando dall’asfalto e ne stava raccogliendo i resti, come quando si stacca un adesivo da un contenitore di plastica.
La bambina era anch’essa vestita di nero come tutto, portava un vestito intero con le gonne che arrivavano fino all’altezza delle ginocchia e delle scarpe di vernice in tinta.
Il viso era dolce, non sorridente ma neppure triste, era difficile distinguere molto i lineamenti, un po’ per l’età, un po’ per la piattezza dell’immagine, aveva però lunghi capelli neri raccolti in due trecce ai lati.
Mi svegliai lentamente, non di soprassalto, passai dallo stato del sonno a quello della veglia pensando ancora a chi potesse essere questa ragazzina, provavo un senso forte legame elettivo nei suoi confronti e una mezza consapevolezza che non fosse un sogno fino in fondo, le diedi il mio stesso nome ma ovviamente al femminile.
Quando fui completamente sveglio piangevo per la sua assenza, per il suo essersene andata dal mio mondo, in un modo o nell’altro. Ero un bambino, di sei anni ed è il ricordo di sogno più vecchio che io abbia.
Mi ha accompagnato per tutta la vita in un modo o nell’altro, ci sono certi giorni nelle mezze stagioni, a settembre quando l’aria si raffredda o a marzo quando sta iniziando ad andarsene il freddo in cui passando davanti alla casa dove abitavo sento ancora quella lieve brezza, osservo l’aria addensarsi poco davanti alla mia bocca e poi allontanarsi e guardo come aspettandomi di incontrare quella bambina, o di vedere cosa le fosse accaduto.
Ricordo altri due sogni non molto distanti, il primo so di averlo fatto qualche mese dopo di questo, nel sogno ero adulto, guidavo un auto e questa si fermava ai bordi di una strada rialzata, da lontano vedevo giù dal dirupo una donna, in questo sogno ero adulto, immobile a guardare in direzione opposta alla mia. Scesi dall’auto e percorsi la discesa verso la donna, la raggiunsi mentre era ancora voltata di spalle e le toccai una mano.
Un istante dopo stavamo scappando da un branco di lupi e mi svegliai del tutto privo di paura come se fosse stato il sogno più avvincente, l’avventura più divertente mai vissuta, tanto che la ripetei decine e decine di volte nei miei giochi a scuola nelle settimane a venire.
Nel tempo mi capitava spesso di sentire la sensazione di essere tornato a quel momento, quell’aria leggermente fresca, frizzante, il buio attorno, i lampioni spenti, forse solo uno lampeggiante per dare l’atmosfera del vedo e non vedo, e la netta sensazione che girandomi avrei visto la bambina, o la donna adulta che nel frattempo poteva essere diventata.
Nella mia adolescenza quella bambina divenne il mio ideale di bellezza, negli occhi di ogni ragazzina cercavo i suoi, cercavo una ragazzina col mio nome, una ragazza con quei capelli, una donna con quello sguardo.
Quando ero adolescente sognai di incontrarla, fu come un colpo di fulmine improvviso, la incontrai e l’affinità elettiva che ci legava esplose in una scintilla, non so descrivere come ma il sogno durò mesi in cui ogni sera ci vedevamo, uscivamo, facevamo mille cose ma al contempo non ricordo nessuna di queste cose, ricordo la sensazione di averle vissute. Lei era sempre vestita di nero e portava ancora quei capelli neri raccolti anche se più corti rispetto al primo sogno.
Un giorno decise di portarmi a casa sua, per presentarmi suo padre, abitava vicino a dove abitavo nella realtà, saprei anche andare a suonare a quel campanello se mai ne avessi avuto il coraggio. Nel sogno suonò lei, una volta entrato ricordo la stanza il tavolone grande, il camino, ricordo quell’aria di casa calda, quel senso di focolare domestico d’altri tempi, ricordo di aver discusso con suo padre dei miei studi, di cosa avrei voluto fare da grande, mi disse cosa secondo lui sarebbe stato conveniente facessi nella mia vita, che è poi quel che feci nella realtà ma non per i suoi consigli.
Poi mi girai per sorridere a lei, ma lei non c’era, chiesi a suo padre e lui si mise a piangere e mi svegliai.
Fu uno dei sogni più strani che feci e l’ultimo in cui la sognai dormendo, passarono molti anni da allora divenni il professionista che curiosamente nel sogno mi era stato consigliato di diventare ma non ebbi mai un buon rapporto con le donne, non saprei dire il perché, o forse si. Non avevano quei capelli, quello sguardo, o quando lo avevano ne ero terrorizzato.
Un giorno diversi anni fa stavo guidando, non ricordo neppure da dove tornassi, cosa ci facessi lì se mi distrassi, se corressi, non ricordo nulla, ma ero su una curva di una tangenziale poco lontano da dove abito ora, persi il controllo del mezzo, improvvisamente, senza alcun presagio la coda cominciò ad allargarsi, a perdere aderenza a scivolare verso l’esterno. Ricordo tutto come a rallentatore, il tempo di pensare che non sarebbe potuta finire bene, la lucidità di controsterzare, il pensiero dei corsi di guida sicura in cui mi ripetevano che il corpo tende a far girare l’auto nella direzione in cui si guarda, il pensiero costante di guardare la strada nella direzione in cui avrei dovuto andare, il guardrail che sfiora il muso della macchina mentre la coda è già sulla corsia di destra. Ho tutto il tempo di pensare che sono fortunato ad essere su una strada a doppia corsia ma a senso unico e di essere su quella di sinistra, finalmente il controsterzo comincia ad agire e la coda ricomincia a rientrare, giusto il tempo di sperare di essermela cavata e poi di accorgermi dell’effetto pendolo che porta l’auto a ruotare nella direzione opposta, giusto il tempo di pensare ancora di guardare nella direzione giusta in modo che la memoria muscolare faccia il resto.
Non so quanto sia durato, ma dentro di me è durato ore il tempo tra l’inizio di quella sbandata e la fine. Immobile al centro della strada, senza danni.
Chiusi gli occhi e respirai.
Chiusi gli occhi e ringraziai il cielo per essere stato solo in macchina e per non aver ceduto al panico.
Posai la mano sul sedile del passeggero, poco distante dal freno a mano, sempre con gli occhi chiusi e sentii una mano toccarmi, una mano calda, liscia.
L’aria era frizzante o forse era l’adrenalina ad esserlo, aprii gli occhi e accanto a me non c’era nessuno, guardai subito la mia mano e non notai nulla di strano.
Tornai a casa lentamente ancora con il cuore in gola, incapace, incapacitato, in crisi, ed una volta arrivato mi misi a letto e spensi la luce.
Il cuore batteva ancora terribilmente forte, dovevo bere un goccio di Jack, aprii gli occhi e allungando la mano verso l’interruttore mi cadde lo sguardo sull’armadio a specchio, la luce era poca, solo quella che filtrava dagli scuri semichiusi dalla notte, ma accanto a me, dietro di me nel letto vidi una donna dai lunghi capelli raccolti su due trecce, accesi la luce e mi voltai a guardarla.
Non c’era.
Ora sono qui, guardo il liquido dorato nel bicchiere largo, lo faccio ruotare, penso che sia uno dei colori più belli che conosca quello del whiskey, e mi piace la densità così diversa da quella dell’acqua, il modo di muoversi, l’odore forte prima di berlo il gusto forte e delicato che cambia nel tempo del sorseggio tra infinite sfumature tra dolce e amaro, ed il retrogusto che rimane.
Non sono più stato al buio da allora. Non ho più spento la luce ne sono uscito di casa la sera.
Ho un termometro da esterni e non esco mai se la temperatura non è lontana dai dodici gradi, molto più bassa o molto più alta non importa, ma non voglio più sentire quell’aria frizzante, non voglio più vedere l’aria del respiro addensarsi in quel modo.
Non ho più dormito con le luci spente e non ho più guidato, i miei colleghi mi danno del pazzo perché cammino un ora e mezzo ogni giorno, andata e ritorno. Le giornate si stanno accorciando però, e la temperatura si abbassa, non manca molto a quando non potrò più andare a lavoro e senza passare dal buio, senza vedere addensarsi l’aria del respiro.
Per questo scrivo questa lettera.
Ora il bicchiere è finito, e sento il freddo dentro.
Ora il bicchiere è finito e spegnerò la luce.
Lettera d’amore
di Stefano Giolo 13 Febbraio 2015
Ricordo l’ultima volta che ti vidi, la penultima a dire il vero, ma l’ultima prima di quel momento.
Ti guardavo mentre mi sorridevi, ti guardavo come si guarda qualcuno che non si da per scontato non si perderà mai,
ti guardavo con l’aria distratta di quando si vede qualcuno ogni giorno, ogni istante.
Non potevo sapere che non ti avrei mai più rivista, che ti avrei rivista solo un’altra volta in uno stato ben diverso.
Non potevo comprendere l’amore che mi legava a te e il non avertelo mostrato ancora abbastanza,
ti osservai sorridermi e voltarti, allontanarti da me a passi lenti mentre lavavo i piatti, ti osservavo dalla finestra finché uscisti dal mio campo visivo e poi mai più ti vidi sorridere, mai più ti vidi voltarti con l’aria che solo tu avevi.
Ricordo il primo giorno che ti vidi, schiva e solitaria.
Bellissima, e schiva, e solitaria, e timida.
Ti scelsi subito perché eri tu che volevo, ti scelsi subito perché avvicinandomi non fuggisti, ti lasciasti dolcemente sfiorare, fu come cogliere un fiore, come cogliere tutta la bellezza di un mondo in una mano.
Ricordo i mesi che passammo assieme, la tua diffidenza crescere e calare, e scivolare come una vibrazione di un diapason prima forte ed instabile poi sempre più stabile e poi flebile in oscillazioni sempre minori, fino a quel giorno, quel sorriso.
Non da molto lasciavi che io sfiorassi il tuo intero corpo, che ti prendessi tra le mie braccia e baciassi ogni parte di te, non da molto avevi cominciato a cercarmi a mostrarmi quell’amore che avevo già compreso, intravisto, amato a mia volta, non da molto avevi iniziato a lasciarti amare quel giorno che fu l’ultimo.
Furono improvvise le urla dalla strada, inaspettate, stavo asciugandomi ancora le mani dai piatti, non avevo capito che quel sorriso, quel lieve tentennamento, quel girarsi a guardarmi e fermarti un secondo era il tuo modo di salutarmi, di lasciarmi una fotografia nella mente, eterna ed indelebile, non avevo capito che stavi dicendomi “Ecco… io vado” e che stavi andando davvero.
Furono improvvise le urla dalla strada, mi chiamavano, chiamavano il mio nome, ci misi un po’ a capirlo a rendermi conto che all’improvviso tu non c’eri più, che ti avrei vista una sola volta ancora ma mai più sorridere, mai più camminare, mai più correre, mai più saltare.
Furono improvvise le urla di chi ti ha trovata accanto a tuo fratello che provava a salvarti rischiando a sua volta.
Ed ora non mi resta che il ricordo di te dopo anni, di come ad ogni goffo movimento ti uscisse un miagolio, di come rispondessi al tuo nome come ad un appello “io!” e tuo fratello che prima di allora era silenzioso che iniziò a miagolare e piangere come non mai, a far uscire un miagolio ad ogni goffo movimento, a ricordarmi ogni giorno di te, della tua bellezza, di quello che sei stata.
Precipitevolissimevolmente scivolo nei meandri dei ricordi di te.
Sole e nebbia
di Stefano Giolo 19 Gennaio 2015
Poche cose ho visto al mondo belle quanto i raggi gialli del sole del primo mattino fendere come lame la nebbia dell’inverno contro luce.
E tu eri qui accanto a me, ed io ero accanto a te, sebbene lontani.
Sebbene tu non pensassi certamente a me.
Giustizia (stralcio di romanzo)
di Stefano Giolo 6 Gennaio 2015
…..
Passai la notte stranamente rilassato, non rivedevo i miei giorni passati, non soffrivo pentendomi, la vissi come una notte normale, come se nulla di diverso dal solito dovesse accadere.
Oggi è il giorno in cui mi uccideranno, la stanza in cui mi trovo è bianca, come il tunnel che si dice ci sia dopo la morte, ma ora sono ancora prima, sono ancora di qua.
L’infermiere è arrivato a prelevarmi, mi chiedo a cosa serva un infermiere, a cosa servano medici, aghi sterilizzati e quant’altro quando sappiamo benissimo che non morirò prendendo qualche malattia.
Il buco per l’ago nella vena potrebbe prenderlo anche mia mamma, non mi sono mai drogato e le mie vene sono sane e ben visibili.
Non avrei mai pensato di fare queste considerazioni a pochi metri dal patibolo ma che vuoi, alla fine non c’è molto altro da pensare. Colpevole? Lo sono.
Pentito? E perché dovrei pentirmi? Tutte quelle persone si meritavano ciò che ho fatto. Lo meritavano i loro genitori almeno, meritavano e meritano tutta la sofferenza che vivranno per il resto delle loro vite. Trovo che sia divertente l’ironia del fatto che io invece non soffrirò più.
-Prigioniero. Perché ride? Abbia rispetto per queste persone a cui ha portato via qualcuno di caro.
Vorrei tanto poter morire col sorriso, ma temo che quelle iniezioni mi faranno perdere la possibilità di controllare i muscoli del volto rilassandoli come se fossi svenuto.
Trovo sia davvero un peccato.
Ora stanno infilandomi l’ago, sorrido al medico, all’assassino. Assassino né più né meno di me, anzi forse ne ha uccisi più lui.
…..
-da “Cuore” Stefano Giolo-
Andate e ritorni
di Stefano Giolo 19 Settembre 2014
Ancora una volta inizierò scrivendo “è da molto che non scrivo qui”, e mi chiedo anche perché mi ritrovo a farlo. Negli anni ho raggiunto la convinzione che scrivere un blog sia privo di senso a meno che lo scopo non sia professionale, di autopromozione o simili. Ti chiedi “a chi può interessare leggere ciò che scrivo?”.
Negli ultimi mesi sono cambiate molte cose, cose perse, cose trovate, cose ritrovate. E persone.
La prima cosa ritrovata, perché è più bello parlare di quel che si trova che di quel che si lascia, è la voglia di scrivere, e la motivazione soprattutto. Scrivere.
Per un paio mesi ho lavorato ad un progetto che avevo in mente da anni ma che non ero mai stato in grado di scrivere, ne è uscito un romanzo breve.
Credo sia un po’ strano, particolare, non so giudicare se bello.
Anni fa dopo aver pubblicato Contrapposizioni avevo fatto una promessa, avevo promesso ad una mia insegnante di Italiano di avvisarla qualora avessi “prodotto” qualcosa di nuovo.
Non è stato facile rintracciarla dopo tanti anni.
Rintracciarla però è stato un tuffo in un mondo vecchio e nuovo. Mi aspettavo di incontrarmi davanti una signora dall’aspetto più anziano di quanto è stato nella realtà, mi aspettavo di entrare in una casa piena di cultura e così è stato, tra mobili di pregio, quadri, e infiniti soprammobili con riferimenti alla storia e alla letteratura.
Mi sono trovato davanti una donna come ricordavo essere quella donna, quella di cui tutti avrebbero riconosciuto il rumore dei passi nel corridoio. Fiera e forte e dolce al contempo.
Il tuffo più forte, al cuore, è stato quando mi ha porto la sua copia di Contrapposizioni con le pieghe agli angoli delle pagine delle poesie che preferisce, il suo raccontarmi che lo tiene nel comodino, ed ogni tanto lo rilegge, ed ogni volta che lo rilegge le dà emozioni diverse e lo interpreta diversamente.
Uno scopo raggiunto nella mia idea di scrittura in quel libro.
Un tuffo più forte quando mi ha porto una copia di un giornale con un mio racconto, un giornale che non ricordavo neppure fosse mai stato edito, un giornale che neppure io ho.
E mi sono chiesto ancora “a chi può interessare leggere ciò che scrivo?” non lo so. E forse non deve neppure interessarmi troppo. Forse la vera domanda è “per chi scrivo?” non darò una risposta pubblica né univoca questa domanda, ma questo è il motore che fa sì che abbia senso farlo.
Che sia per l’arte, che sia per te che stai leggendo, che sia per qualcuno che mai leggerà ciò che serve per scrivere è un motore e nulla che possa uccidere la motivazione.
Pubblicare non so se farlo ancora o no, importa più scrivere che pubblicare, non puoi pubblicare ciò che non scrivi, che ti tieni dentro, che soffochi, che lasci morire dentro.
E poi quando scrivi, quando vivi, quando affronti il mondo con la faccia pulita di chi guarda al futuro con curiosità e fiducia le cose vanno, le cose tornano, i mondi cambiano. Incontrare una persona che non vedevi, sentivi, incontravi da anni, troppi anni.
Trovare la foto di uno sguardo che non riesci a non continuare guardare, che non riesci a guardare senza che il cuore acceleri come, parlare con quello sguardo, non nella mente ma con la voce. Accorgersi che il tempo dilatato dell’assenza si può comprimere ed il tempo essere come pochi istanti dopo di un’altra foto di quando avevi quattordici anni.
So che scriverò ancora perché la testa è piena di idee, so che vivrò ancora perché la testa è piena di sogni, so che correrò ancora perché le gambe, i piedi l’intero corpo non vedono l’ora di uscire da questo tepore delle coperte.
Il mondo va, il mondo viene, e nel mondo noi andiamo e veniamo e ci muoviamo e nuotiamo.
E il tempo scorre, non torna mai indietro, e il tempo scorre e talvolta il passato acquista significati che prima non aveva e da un significato ad un futuro che prima non si vedeva all’orizzonte.
La fine del mondo
di Stefano Giolo 21 Dicembre 2012
Ommioddio, io non ci credevo.
Non potevo crederci ne volevo…
è l’alba e mentre sale il sole vedo distruggersi il mondo che conosciamo.
All’orizzonte mentre arriva la luce vedo arrivare il buio, vedo le fiamme nere come la morte impossessarsi dei palazzi e dei campi.
Chi è già sveglio cerca di scappare inutilmente ma io me ne sto qui in attesa,
fuggire è ormai inutile.
Inutile tentare di sopravvivere al destino.
Molti di voi non leggeranno mai ciò che sto scrivendo, molti di voi non vedranno mai più la luce,
ma saranno i più fortunati,
saranno quelli che probabilmente non soffiranno,
neppure se ne accorgeranno.
Gli altri, ammesso che qualcuno sopravviva,
si sveglieranno in un mondo distrutto,
un mondo che non è più quello in cui si sono addormentati.
Avevano ragione,
avevano tutti ragione.
L’unico rimpianto è quello di non avere installato Instagram sul mio smartphone.
Cazzo, una bella fotina effettata dall’orlo del baratro della fine del mondo mi avrebbe fatto vinncere il Pulitzer.
Perché ho smesso di scrivere
di Stefano Giolo 5 Agosto 2012
In questi giorni mi sono interrogato sul mio scrivere, anzi per l’esattezza sul mio non scrivere.
Perché non scrivo?
Non sento più il bisogno di scrivere?
Talvolta si, ma è ciò che vorrei scrivere a bloccarmi, o meglio chi leggerebbe e non trovo sensato scrivere solo per me, perché ciò che è scritto lo è per essere letto.
La vita è più frenetica, il tempo è meno, vivere da soli ti lascia determinate libertà ma contemporaneamente ti porta via molti tempi morti un tempo utilizzabili per creare, scrivere, comporre, suonare.
L’età fa calare determinati impeti letterari ma neppure questa ne è la causa.
Un tempo la mia vita era più “tumultuosa” come quella di ogni adolescente o ragazzo e amavo creare “mondi” immaginari o pseudo reali ed applicarli alla realtà del momento, scrivere cose struggenti ed applicarle a realtà non necessariamente tali, scrivere racconti o pezzi poetici da psico killer e camuffarli da rabbia adolescenziale, scrivere di uno sguardo incontrato per strada come fosse l’amore di una vita, magari applicarlo ad uno sguardo di persona reale ma non necessariamente corrispondente per giustificare il mio scrivere d’un amore che in realtà non esisteva.
Era semplice una volta immaginato -profilato- qualcosa di struggente trovare una situazione a cui applicarlo e quindi scriverlo già su una data situazione, era semplice data un immagine nella mente renderla reale su un volto, su un luogo, su qualcosa che rendesse l’immagine poetica una poetica realtà.
Ora il mondo attorno a me è cambiato, complice l’età, complice una stabilità (psicologica e sentimentale, dato che quella lavorativa decisamente non è per ora).
Scrivere un racconto sul sorriso di una donna, o l’immagine di un ricordo di un istante modificato nel tempo, mi espone al dover spiegare alle persone che ho accanto da dove venga tale immagine, a inventare sia il sorriso della persona che ho accanto o a giustificare perché non lo sia, scrivere del sentimento di vuoto ed assenza dato dalla mancanza di qualcuno mi espone a dover giustificare da dove venga questo desiderio di scriverlo, a inventare a chi applicarlo per quietare almeno parzialmente il dubbio, l’incredulità del fatto che possa non essere applicato a nulla di reale se non al ricordo di ricordi, o a un sogno estemporaneo.
Scrivere una parafrasi di passi della Bibbia mi espone al dubbio di blasfemia, da giustificare di fronte ai ragazzi che educo nello scoutismo, o più probabilmente ai loro genitori che al giorno d’oggi attraverso Facebook possono vedere praticamente tutto, compreso questo post.
Lo scrivere un racconto cyberpunk con la cultura che ci sta dietro legata a modi di dire volgari che lo rendono tale mi espone a sua volta agli stessi rischi, scrivere un racconto di morte invece espone al preconcetto che uno sia psicopatico, che non possa educar ragazzi, che stia male e vada educato quando magari è solo il parto di un sogno, o della visione di un film, o di un’innocente riflessione sulla morte, ma in passato ho scritto e non pubblicato cose ben peggiori che ai miei occhi sono sfoghi, o provocazioni ma agli occhi di una fidanzata, di un genitore, di un datore di lavoro risultano essere tradimenti, sintomi di violenza, mancanza di rispetto.
Poco importa se tutto ciò sia alternato con consigli su come cercare di avere un’informazione non di parte, o se provo a dimostrare l’esistenza dell’anima si può pensar di me che io creda d’esser arrivato chissà dove o essere chissà chi.
Infine se talvolta scrivo cose più filosofiche sulla vita, o cose sulla felicità, indubbiamente meno interpretabili, eppure a volerla tirar tutta tra le righe ci possono essere lì più pezzi della mia vita vera di quanto ce ne siano nel resto di quanto scrivo, ma non è sempre e solo questo che scrivo o che trovo da scrivere.
Io credo non di “scrivere” ma di “trovar qualcosa da scrivere” trovarlo dove? Nell’aria, nel mondo, sotto il cuscino, sotto il tappetino dell’ascensore di lavoro, nella tua tasca, lo trovo lì.
E poi io stesso rileggendomi mi chiedo chi abbia scritto ciò che ho trovato da scrivere, estraniandomi completamente da me, dal perché ho scritto da cosa ho scritto, dimenticando chi sia lo scrittore.
E da tutto questo nasce un ulteriore dubbio, diatriba, una dicotomia del pensiero, perché questo stesso scritto può essere compreso in fondo o può essere lasciato a un livello che mi indichi semplicemente come paranoico.
Quindi in definitiva la domanda è perché non scrivo?
Per che non scrivo o per chi non scrivo?
Non scrivo per chi mi chiede perché scrivo, non scrivo su chi sbaglia a cercare come interpretare ciò i miei scritti, non scrivo per chi quando descrivo un volto si sofferma a pensare a chi sia quel volto e non alla poesia che voglio esprimere, per chi quando scrivo di un amore vuole sapere se quell’amore esista e non si sofferma a goderne semplicemente l’immaginario, non scrivo per chi quando descrivo un sentimento mi chiede a chi sia diretto e non si limiti a provare a viverlo per nessuno o tutti o chi vuole come lo vivo io scrivendolo, al contrario non scrivo per chi quando scrivo rabbia e insulti si sente offeso invece di chiedersi a cosa e chi siano rivolti e perché, non scrivo per chi non ha la capacità di astrarre dal conoscermi e non riesca a leggere un mio racconto horror, cyberpunk o splatter come leggerebbe il racconto di uno scrittore sconosciuto.
Non scrivo in definitiva per chi giudica e chi legge ciò che scrivo non per quello che scrivo ma per conoscere cose che non vi sono scritte.
La Genesi. Dalla Bibbia secondo me.
di Stefano Giolo 24 Aprile 2011
In principio Dio creò il cielo e la terra.
Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
Dio disse: “Sia la luce!”.
E la luce fu.
Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte.
E fu sera e fu mattina: primo giorno.
Dio disse: “Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque”. Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento.
E così avvenne.
Dio chiamò il firmamento cielo.
E fu sera e fu mattina: secondo giorno.
Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne.
Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare.
E Dio vide che era cosa buona.
E Dio disse: “La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie”. E così avvenne: la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.
E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
Dio disse: “Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra”.
E così avvenne: Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona.
E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
Dio disse: “Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo”. Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra”.
E fu sera e fu mattina: quinto giorno.
Dio disse: “La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie”. E così avvenne: Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.
E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.
Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò.
Dio li benedisse e disse loro:
“Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra”.
Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”. E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.
E fu sera e fu mattina: sesto giorno.
Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.
E fu sera e fu mattina: ottavo giorno.
Dio vide nel mezzo del mondo un uomo, Abramo che si guardava intorno dimentico del passato e smarrito al quesito di chi avesse creato tutto questo.
Scese sulla terra e vi parlò per poi lasciarlo vivere e lasciare che il suo verbo si espandesse. Rimase a seguire l’uomo per ore, tra le sue guerre, e le civiltà.
L’uomo era diverso dagli altri animali e seguirlo era un’attività molto più faticosa delle precedenti.
E fu sera e fu mattina: nono giorno.
Dio disse: “dov’è finito l’uomo in questa notte?” E fece scendere il suo figlio primogenito sulla terra per indicare la via agli uomini, li seguì il tempo che questi nuovi insegnamenti si espandessero poi la fatica lo portò nuovamente a riposare.
E fu sera e fu mattina: decimo giorno.
Dio disse: “dov’è finito l’uomo in questa notte?” E con rammarico guardò le armate vestite di bianco fregiate di croci rosse, guardò le guerre e il sangue, guardò la barbarie, e vide che non era cosa buona e giusta. Decise di cambiare il mondo, ancora una volta ma con segni più piccoli per non interferire troppo, mandò santi e cultura, voglia di rinascita.
E fu sera e fu mattina: undicesimo giorno.
Dio disse: “non è questo ciò per cui ti ho creato libero” e urlò all’uomo di smetterla col petrolio, con l’uranio, con il sangue e le guerre fratricide, fece tremare la terra, scaldare il cielo, lanciò segni che non lasciassero dubbi sul rischio dell’uomo di distruggere la terra stessa che gli era stata donata.
E fu sera e fu mattina: dodicesimo giorno.
Dio scese sulla terra e non vi trovò un solo uomo, ma trovò ancora piante, animali e la terra che liberatasi del proprio male aveva ripreso a vivere.
E vide che era cosa giusta.
Sull'omeopatia
di Stefano Giolo 11 Novembre 2010
Un piccolo estratto dal racconto di The Man About town del 1838 scritto da Cornelius Webbe
Il protagonista è Waggle un uomo con l’abitudine di scherzare con chiunque incontri per strada e seppure lo faccia in modo bonario e non offensivo alla fine risulta fastidioso a tutti.
—
“Cos’è l’omeopatia?” Gli chiese L una o due sere fa. Ero sicuro che avrebbe ottenuto una risposta
“Beh, direi che è la via più vicina e il modo migliore per tornarcene a casa…” questa fu la risposta.
“No, no…vieni qui e dimmi, da quanto vedo qui – e prende la Gazzetta delle lettere – tra i nuovi studi l’omeopatia è una tesi, volume 8, pagina 2, paragrafo 6“.
“Cosa?” gridò Waggle
“Una tesi” ribatte L.
“Sbagliato, al posto di “l’omeopatia è una tesi” devi leggere “l’omeopatia è un giochetto di abilità” disse Waggle velocemente e seriamente.
“Ma dai, dai…questo è uno dei tuoi vecchi scherzetti! Dimmi cos’è allora…” gridò L.
“Beh, quindi…è un metodo tradizionale e delicato per curare le malattie con la più piccola quantità di voglia di non curarle” disse Waggle.
“Continuo a non capire” disse il suo amico dubbioso.
“Umh, la faccio più semplice per chi comprende poco”
“Grazie” disse L.
“Supponiamo che la tua piccola casa sia in fiamme…bene…”
“Ma che bene!” gridò L.
“Questo è ciò che accade – continuò sarcastico – essendo in fiamme probabilmente tu procurerai interi secchi pieni d’acqua e manderai il tuo governante ai macchinari. Faresti molto male.
Secondo la nuova rivelazione [l’omeopatia, ndt.] dovresti lasciare che tutto si incendi finché sia carbonizzato dal tetto al terreno. Dovresti quindi procurarti l’ago più fine che trovi nella stanza di tua moglie e con quello punzecchiare i tizzoni uno ad uno finché ti stanchi di farlo.
Quando ti accorgi che questo non funziona e che tutto divampa ancora più furiosamente, recati al più vicino droghiere e compra, dividendoli in due barili, del catrame e della pece, per poi sminuzzarli in pezzettini più piccoli che puoi, infinitesimali.
Mantenendo la distanza lancia uno di questi pezzi di tanto in tanto attraverso la strada dentro la tua casa in fiamme e se divampa ancora lanciane due, tre e continua così finché la tua casa è del tutto bruciata, fino a terra.
Quando non c’è più niente da bruciare il fuoco, naturalmente, si spegnerà. Questa è l’omeopatia.”
“Ho capito ora…” disse L.
Alex pt1
di Stefano Giolo 9 Novembre 2010
Sono Alex, non ho un cognome e se anche lo avessi non lo verrei a dire a te.
Sono nato in una famiglia medio borghese, non si stava male, anzi forse a dirla tutta si stava fin troppo bene, almeno prima che scoppiasse la guerriglia.
I miei genitori lavoravano in una corporazione erano entrambi a un buon livello gerarchico ed economico, non c’era nulla di cui potersi lamentare, io crescevo primo della classe fin dall’asilo, fin dall’asilo stupivo gli insegnanti per la mia acuta intelligenza e i miei compagni per la mia inettitudine ed incapacità di rapportarmi a loro.
Ero preso in giro, bistrattato, ero lo sfigato del gruppo, quello che non c’era posto per un altro giocatore, quello che “è stato lui maestra”, quello che…. ho imparato presto quanto le persone siano infide, quanto appena mostri un lato debole queste in massa ti attacchino in quel punto per distruggerti, ho cominciato ad isolarmi. A covare una vendetta che non avrei mai potuto realizzare.
Mia madre aspettava un bimbo, sarebbe nato un fratello, chissà, magari qualcuno che mi sarebbe stato accanto, avevo cinque anni i primi segnali di instabilità della società si iniziavano a sentire, i miei genitori erano visibilmente preoccupati. Potrei dirti di cosa si occupava la loro corporazione ma dovrei dirti troppe cose su di loro fatto sta che fu a causa di questa che mia madre perse il bambino, perse mio fratello, non solo, perse la possibilità di avere figli per colpa di quella cazzo di roba chimica.
Non so per quanto la vidi piangere, mio padre che la consolava e che a fatica teneva le lacrime, entrambi loro che cercavano di spiegarmi come fossi un bambino le cose. Si lo ero un bambino, è vero, ma capivo molte più cose di quanto credessero.
Continuai a covare vendetta.
Da allora i miei genitori furono solo sempre più tesi, e parlavano sempre meno di lavoro, parlavano sempre meno.
Un giorno, avrò avuto sette anni, non mi portarono a casa da scuola, non mi ci portarono più.
Fui affidato ad un’altra famiglia felice ma io avevo già capito cos’era accaduto.
Restai con loro qualche anno, sempre in questa specie di mondo fatato e dorato, lontano da ogni male, lontano dalla guerriglia che ormai divampava nei bassifondi della città e sempre a sentirmi preso in giro dai miei coetanei, questa volta chiamato orfano, chiamato trovatello, con offese pesanti ai miei genitori, allusioni al fatto che non mi avessero voluto più con loro.
Mi sentivo non l’essere più insignificante ma quello più schifoso e ciò nonostante al centro del mondo ero la nullità.
Avevo ormai quattordici anni quando scappai di casa.
Quando scappai dalla famiglia.
Quando scappai da tutto.
Quando scappai da me stesso, o almeno ci provai.
La vita non fu semplice, attorno c’era guerriglia e venivo da un mondo di inetti lavoratori dipendenti, avevo le unghie pulite, avevo i calzini bianchi, avevo i capelli corti.
Ora ho i miei Jeans strappati, ho i miei stivali, i miei capelli lunghi incolti, la mia moto, la mia gente. Mia.
I primi tempi furono difficili ma la mia intelligenza spiccata mi aiutò a trovare i contatti, le amicizie se di amicizie si può parlare in questo mondo, diciamo le conoscenze ecco.
Iniziai a formare il mio fisico, ad imparare ad usare una lama per qualcosa che non fosse spalmare il burro sul pane, scoprii di avere una certa resistenza fisica, capii che essere lo sfigato serviva si ad essere insultato ma anche ad essere considerato non meritevole di sprecare una pallottola o di sporcare un coltello. Scoprii che essere almeno apparentemente remissivo serviva anche ad essere ignorato.
Scoprii che nonostante stessi fuggendo dal mondo non ero in grado di sfuggire a me stesso.
A sedici anni incontrai una delle due donne della mia vita, quella da cui non posso più allontanarmi.
Conobbi la droga.
All’inizio quelle uditive, suoni distorti che cambiavano la mente, e poi pian piano quelle chimiche, credo di aver provato qualsiasi cosa.
Passò un altro anno, nel frattempo cominciai a raccogliere qualche altro disadattato, e a crearmi il mio gruppo di bulli. A fare parte di un gruppo di bulli.
All’inizio mi tenevano per le mie idee, mi consideravano lo sfigato del gruppo, come sempre, ma davo buone idee ed ero sveglio.
Non sapevano che fossi anche forte ormai, e che sapessi usare una lama ma sapevano che tramavo vendetta, che bramavo vendetta, che volevo sapere perché i miei genitori erano stati fatti sparire, erano stati uccisi, anche se ho sempre avuto, ho tutt’ora la convinzione che centrasse quello schifo chimico che già aveva danneggiato mia madre precedentemente.
L’anno successivo compii diciotto anni, fu in quei giorni che conobbi Lei. L’altra donna da cui ancora non riesco a staccarmi se non per breve tempo.
Fu il capo del mio gruppo a farmela incontrare, era bella, bella come mai avrei potuto immaginare una donna, occhi verdi, capelli ricci lunghi.
Io vivevo per le strade, io ero uno sfigato, ero un perdente non avrei mai potuto avvicinarmi ad una simile bellezza seppure avesse uno sfregio che le attraversava il volto dall’esterno del sopracciglio destro al mento passando per le labbra, quasi all’angolo delle labbra.
Fu il mio capo ad avvicinarsi a lei che passava per strada insultandola con apprezzamenti degni di un microcefalo.
E fu lei ad avvicinarsi e colpirlo con un pugno sul naso.
Ci volle qualche secondo perché lui si riprendesse e tentasse di violentarla per punirla.
Ci volle qualche secondo perché la lama del mio coltello gli attraversasse la schiena e gli uscisse dal petto.
Ci volle un secondo perché lui si rendesse conto prima di stramazzare al suolo, prima che il gruppo si rendesse conto che il capo ora era un altro.
Prima che mi rendessi conto che ora ero qualcuno, nel male o nel… male che fosse.
Nadja. Nadja significa speranza e quello era, è il suo nome.
Non la salutai neppure, guardai il gruppo e dissi: “andiamo qui abbiamo finito” e il gruppo per la prima volta mi seguì.
Ero diventato un assassino, ero diventato un leader, ero diventato uno schifo. Ah no, quello lo ero già.
Fu lei a cercarmi.
Che Donna.
Fu lei a cercarmi, ad avvicinarsi a me giorni dopo, a baciarmi e lasciarmi in tasca un foglio.
Senza dire una parola.
E andarsene.
Era il suo indirizzo, e poche parole d’amore, di un amore stringato e secco come il pugno in faccia al mio vecchio “amico”.
Io, lo sfigato avevo per la prima volta una donna. Una donna che mi volesse intendo, che non fosse costretta dalle contingenze o dai miei compagni o da altro.
Insomma avevo una Donna, la mia donna.
Ma non fu neppure questo credo a farmela amare, a farmela stimare. Mi accorsi di amarla quando mi accorsi di aver vendicato per la prima volta una persona che non fosse me stesso.
Di aver vendicato qualcun altro, di aver spostato il centro del mondo da me a fra noi. Ci vediamo ancora io e lei, non dico che stiamo assieme dico che certe cose le vivo solo con lei e lei con me, dico che non c’è altro posto dove vorrei tornare quando sono ferito, o stanco. E lei lo stesso con me.
L’anno successivo incontrai Cort, il mio Maestro.
Colui che mi aiutò ad affinare le arti del mio sopravvivere, del mio essere, del mio lottare.
Lottare per cosa?
Per la vendetta. Perché fu sempre Cort a scoprire qualche informazione in più sui miei genitori su come siano stati fatti sparire per aver toccato equilibri della corporazione che non avrebbero dovuto toccare, per aver scoperto cose che non avrebbero dovuto scoprire.
Non mi ha mai confermato la loro morte, non ha mai detto nulla a dire il vero su cosa sia stato fatto di loro e ancora mi chiedo perché mi abbia raccontato queste cose, perché mi abbia aiutato ad affinare le tecniche e perché improvvisamente sia scomparso.
Scomparso. A volte ho paura facciano sparire anche Nadja, a volte ho paura che in realtà ce l’abbiano con me e non con le persone accanto a me, per questo cerco di vederla, si ma non troppo, ne troppo apertamente.
E così continuo a lottare, lottare per la vendetta.
O per… per qualcosa. Per sopravvivere a questo mondo. In giro col mio gruppo.
Per abitudine giro ancora in mezzo, come non fossi il leader, come fossi lo sfigato intelligentone utile come consigliere del capo.
Quello che sembra il capo è solo il migliore di loro. Si, di loro, non di noi.
E così giriamo, sopravviviamo, andiamo avanti. O indietro, o da una parte, insomma hai capito..
(Successivo: Alex pt2)
Il mio mondo di scrivere è cambiato.
di Stefano Giolo 5 Settembre 2010
Il mio mondo di scrivere è cambiato, si il mondo non il modo.
Accorgermene è stato quasi improvviso, quasi in quanto in realtà sotto sotto me ne stavo accorgendo da anni.
Ho scritto diversi libri, quelli che ho completato sono tutti di Poesia. Ho pubblicato “Contrapposizioni” che in quel momento era il meglio di ciò che avevo ma che pecca a tratti dei difetti della gioventù, ho tentato poi di pubblicare “Ritratti” che nonostante sia ormai datato a rileggerlo mi emoziona ancora, è ricco di citazioni, cita ognuno degli altri libri che ho scritto e mai pubblicato, contenine significati più o meno nascosti nei meandri delle frasi, come e meglio di “Contrapposizioni“, e soprattutto contiene tanto, tanto me. Ho cercato di pubblicarlo ma ho avuto solo problemi, tanto da dovermi rivolgere ad avvocati. Ci proverò ancora, lo so già,
Poi… finito ritratti ho cominciato a dire che scrivo poco, che non scrivo più. Ho scritto altre poesie ma in modo inorganico, ne ho scritte alcune che sono tra le più belle che ho scritto, sono riuscito a esprimere concetti che volevo esprimere da anni ma… la poesia stava calando.
Scrivere è un po’ come l’amore, quando sei adolescente ami con un intensità, un calore, una forza innate, non esiste che l’amore nasca nei meandri della mente e si insinui, l’amore quando sei adolescente arriva come un tram in corsa e ti colpisce portandoti via in un istante e poi… e poi chissà spesso lo perdi alla prima fermata, o ti perde lui. Col passare del tempo l’amore cambia, non è meno intenso, è solo diverso, l’amore quando cresci un po’ comincia ad essere meno impetuoso ma più stabile, non ci sono giorni in cui ami alla follia e giorni in cui non ami affatto, ci sono giorni in cui ami, ami sempre non ci sono più i giorni in cui ti strappi l’anima ma non ci sono neppure quelli in cui lasceresti perdere tutto per una discussione.
Controlli di più le sensazioni e apprezzi di più ogni pulsione e sensazione conoscendola, è un amore che all’adolescente risulta un non amore quanto l’amore dell’adolescente sembra un non amore all’adulto. Si passa dall’amore di possessione a quello di donare tutto a quello di avere uno scambio, un interscambio, un’unità, due singolarità interconnesse. Ma nessun amore è un non amore, e nessuno è migliore dell’altro in senso assoluto. Si tratta di naturale evoluzione che il più delle volte accade sottobanco senza accorgersene neppure, anzi spesso uscendo dall’amore dell’adolescente si crede di non saper più amare perché non si hanno più le stesse sensazioni forti e quasi nel bene e nel male distruttive.
E così ho creduto di non saper più scrivere, qualche impeto ogni tanto, qualche poesia, valida, matura e qualche refuso di bassa qualità.
E poi altre cose che ignoravo.
Molte altre cose.
Così in questi giorni, partendo dal racconto sulla bellezza che ho pubblicato poco tempo fa ho seguito i collegamenti automatici, quei collegamenti che sotto ad ogni post suggerisce altri post, e da quelli altri ancora, ed ancora ed ancora. Ho riletto il modo ripetitivo che ho di scrivere alcune descrizioni, cosa che ricorda molto alcune mie vecchie poesie che a loro volta ricordavano Edgar Poe, quella porta della stanza, quel busto di minerva sulla porta della stanza, mentre le poesie si spostano ancora un po’ verso uno stile di Pessoa, ma non c’entra questo. Ho riletto e navigato tra un percorso e l’altro, ho riletto ed ho capito che non è vero che non scrivo, che scrivo poco.
Ho capito che c’è una logica, un percorso, ho capito che presto inizierò a comporre un nuovo libro, completamente diverso dai precedenti miei, e tra questo e gli altri, tra questo e “Ritratti” ci sono stati molti altri libri tentati, smangiucchiati, provati e mai finiti, iniziati, abbozzati, ma questo è il futuro, questa è la direzione che intendo prendere e scrivere.
Come l’amore, un nuovo amore, l’amore.
Questa è la direzione -dimensione – che intendo affrontare, è cambiato il mio mondo di scrivere, è cambiato il mio mondo di -da- amare e dopo mille tentativi smangiucchiati ora scriverò qualcosa di completamente diverso da ciò che ho scritto fino ad ora, qualcosa di davvero finalmente diverso.
Del suo sorriso, della bellezza.
di Stefano Giolo 4 Settembre 2010
Ricordi di ricordi di ricordi di ricordi di ricordi di ricordi
di Stefano Giolo 24 Luglio 2010
Ci sono momenti che restano trasversali alla vita.
Incroci qualcosa, qualcuno, una persona, la incroci in un momento della tua vita, come un linea trasversale alla tua, come un vettore che si incrocia.
Cambia la tua vita? No, non è cambiato nulla, ma è cambiato tutto.
Non si torna indietro. Non si torna indietro a prima di questo incontro, ma non si torna indietro neppure al momento in cui è stato.
Non si torna mai indietro e basta.
Eppure alcune parole, alcuni istanti, alcuni scambi fanno rivivere ancora, e ancora, e ancora i sogni le sensazioni i sentimenti i colori le luci gli odori di allora, la pista, il sole, la tangibile mancanza di un fuoco che sarebbe bello ci fosse stato, la comprensione profonda di sconosciuti, di vite parallele, una vita parallela alla mia accanto alla vita parallela di qualcun altro che viveva come me una vita parallela alla propria. Incroci di vite parallele e paradossi, scontri incontri, ed anime che si sfiorano, si girano attorno, si osservano come gatti a coda alta e poi d’un tratto torna la vita reale, quella che non è più, o quella che è ancora, quella che è sempre stata ma che non è più quel che era, un’orchidea.
Ma restano ancora
vite parallele che non si incontreranno
forse
all’infinito.
Ricordi d’Abruzzo
di Stefano Giolo 6 Aprile 2010
Credo sia e resti per sempre una delle esperienze più forti della mia vita, una delle esperienze di vita che più mi hanno segnato, con voi, Tommaso, Davide, Marco, Sofia, Chiara, Alice, Stefano e con tutti i ragazzi che c’erano alle tendopoli.
Ricordo i loro sguardi, le loro parole, a volte straniti, persi a volte svegli come pochi.
Ricordo l’unione che solo la vecchia buona banda di B.P. crea in pochi istanti. Fratelli, fratelli mai visti prima ma che tali resteranno per tutta la vita. Fratelli.
Fratelli a lavorare accanto a me per altri fratelli che ancora mi cercano dopo questi mesi, con cui ancora si scambiano parole, opinioni, emozioni.
Dopo mesi ancora devo rielaborare tutto, tutte le emozioni, i ricordi, i sentimenti forti provati, sentimenti emozioni e ricordi che confrontati ad altri momenti, a quelli che pensavo i momenti più importanti del mio passato sono invece gradini, metri, chilometri sopra.
E penso a come è ancora la vita attorno a quelle piazze, quelle case crollate, a come tutto questo sia stato strumentalizzato dai media, nel bene e nel male, da una parte e dall’altra, di come la realtà filtrata sia spesso radicalmente diversa dalla realtà vissuta, a come sia difficile portare con chiarezza la propria esperienza vissuta in quei momenti a chi non può vedere i miei occhi mentre ne parlo, penso a come invece restino colpite le persone che mi guardano negli occhi mentre racconto gli occhi dei ragazzi ci Civitatomassa, dei ragazzi di Piazza D’Armi, e degli adulti, degli anziani, e di Francesca, e di quella bimba dolce e al contempo agitata, nervosa, di quei genitori disperati senza un futuro che rendevano comunque la vita dei loro figli il migliore possibile nei limiti di quanto si potesse.
Penso alla forza degli uomini in quei momenti e penso anche alla debolezza, alla voglia di arrendersi, agli eccessi di ira o di sconforto, alle unioni e alle divisioni che le difficoltà creano negli animi.
Penso a come certe cose se non le hai vissute non le puoi capire, a come io stesso che ero lì non potevo e non posso pretendere di capire gli animi delle persone che hanno vissuto il terremoto vero, quello devastante.
Penso però al tremore delle gambe dopo un terremoto, alle gambe molle del calo di adrenalina, alla sensazione che la terra sotto i piedi avesse perso la consistenza improvvisamente, a come ogni certezza nel mentre di quel tremore fosse improvvisamente in un’istante scomparsa, a come la potenza della terra la forza si in grado di farti sentire schiacciato, piccolo, infinitesimo, impotente, e come il sorriso di un ragazzo invece ti faccia comprendere quanto l’uomo sia infine più forte di ogni forza del mondo, di ogni terremoto o alluvione, l’uomo in quanto gruppo, l’uomo in quanto società, l’uomo in quanto umanità.
Ho visto esempi di umanità immensi, ho visto esempi di persone immense, o visto la vita nascere proprio perché scontrata con la morte, la vita nascere proprio perché in quel mentre era necessario non arrendersi, ho visto l’anima della gente, ho visto cose che noi umani non sospettiamo di avere dentro, e con me molti altri le hanno viste.
Non lasciamo che tutto questo però resti un’esperienza personale, un qualcosa di “vissuto da me” un qualcosa “che mi porto dentro”, facciamo fruttare tutto questo, facciamolo crescere, condividiamolo.
E grazie ragazzi, grazie di aver cambiato la vita mia e di molti altri volontari, grazie con la vostra sofferenza e il vostro male, e con la vostra forza, e con il vostro animo di aver aiutato noi delle varie protezioni civili ad essere, spero, persone migliori.
Grazie.
Acino
di Stefano Giolo 12 Novembre 2009
Non lo so perché oggi ho scelto di salire sul sedile dietro della macchina, credo sia venuto spontaneo, così… fatto sta che mi ritrovo qui.
Alla guida c’è il buon vecchio Simon, lato passeggero nessuno.
Io sto piegato in avanti, appoggiato al sedile anteriore con la testa al di là del poggia testa, a parlare con lui, è una bella giornata di sole questa, inverno e sole, ottima per un bel giro sulla neve.
Siamo in autostrada già da qualche ora, in tranquillità, Simon non è solito correre ed è bello godersi il paesaggio e fare quattro chiacchere nel tragitto, godersi il tempo, godersi lo spazio, godersi la compagnia di…
D’un tratto accanto a noi un camion sembra sbandare un po’, stringerci di lato da destra.
In un’istante sfiora la macchina sul mio lato, non la tocca per un nonnulla e Simon lo schiva, ma sull’altro lato c’è ancora un camion. La macchina rallenta, si lascia sorpassare da entrambi.
Come sempre l’abbiamo scampata, l’ho scampata, si perché tanto ho la consapevolezza che non è ora, che non sarà qui che deve accadere, un po’ come una predestinazione, non lo so spiegare, e poi ora c’è lei.
…dicevo godersi la compagnia tra amici, lasciare che il mondo vada per la sua strada senza vincoli, senza strettoie, senza margini contro cui scontrarsi.
Lontano dal lavoro, dalle preoccupazioni, dai mille pensieri e… ed ancora un camion, questa volta, ancora ci stringe, questa volta è più avanti e il muso della macchina è a metà del rimorchio, e non c’è il tempo di frenare.
Non sento quasi neppure il rumore frastornante assordante della lamiera che si piega, si contorce, il muso della macchina che si stringe schiacciato tra il rimorchio di un camion e la motrice di un altro che è sopraggiunto da sinistra, ma osservo tutto, dura pochi istanti e tutto sta già finendo, anche questa volta ci è andata bene, anche questa volta incredibilmente ci è andata bene, anche se ci siamo andati vicino anche ques. Senza un istante d’attesa sento una pressione sulla schiena, non ho bisogno di vedere per capire che il tetto della macchina sta stringendosi su di me, che qualcosa è arrivato da dietro di noi, allungo la mano, sicuro di poter aprire la porta e fuggire prima di rimanere incastrato, allungo la mano senza neppure accorgermi che la mano non si può, non si potrà muovere, senza pensare che la portiera è schiacciata dalla fiancata di un camion, penso solo che vorrei mandarle almeno un messaggio, dirle qualcosa, penso solo che me la caverò per lei, penso solo che non pensavo che un corpo umano sottoposto a questa pressione potesse somigliare così ad un acino di uva, lo penso un istante mentre tutto esce da me.
Il Giardino
di Stefano Giolo 23 Gennaio 2009
Il giardino è grande, grande davvero eppure…. eppure pian piano nell’erba due ricci si avvicinano tra loro.
Si allontanano, ognuno nella sua parte di giardino, ognuno con le sue cose.
Uno intento rotolar sulle foglie gialle e rosse autunnali, infilarle, raccoglierle, catalogarle, comporre nuovi disegni, nuove sculture e rappresentazioni, cammina, si muove un po’ goffo di qua e di là dondolando sulle zampette corte, pof pof pof… poi vede una foglia che gli piace, e ci rotola sopra, la porta alla sua tana e poi comincia a scuotersi fino a sganciarla, a volte le rovina, a volte le tiene stupendamente, non importa, è più divertente così, e poi di foglie ce ne sono tante, che importa! Però prima o poi troverà la foglia più bella, farà la composizione più bella, realizzerà qualcosa, cosa non lo sa.
L’altro riccio anche lui passeggia qua è la per la sua zona di giardino, non ci sono solo due zone, il giardino è grande e c’è posto per tanti, tanti, tanti altri animali, e anche per due ricci.
L’altro riccio dicevo passeggia nella sua zona, si guarda intorno e segue gli uccellini in volo. Guarda sempre in alto, li osserva e quando gli uccellini saltellano sui rami li osserva saltare, li ascolta, ascolta il loro canto, ogni tanto tra i rami vede correre qualche scoiattolo o qualche piccolo animale, quando corrono fanno spesso cadere le foglie, trova così bello quando uno scoiattolo correndo tra i rami li piega e fa cadere una piccola pioggia di foglioline che scendono lente! Allora corre e cerca di mettersi su due zampe per toccarle col naso prima che tocchino terra. La cosa più bella è quando invece di scendere foglie cadono le samare dagli aceri, quei semi con l’aletta attaccata che quando si staccano dal ramo ruotano ruotano ruotano fino a toccare terra. Diventa quasi imprevedibile dove cadranno e il riccio lentamente e goffamente dondola alla ricerca di dove andranno a finire, per toccarle al volo col nasino tondo, pin pin pin pin si muove qua e la, a volte cerca anche di fare un piccolo balzo ma la natura non l’ha dotato di questo dono.
Ogni tanto però questi due ricci, uno rotolando l’altro col musino all’insù si ritrovano uno accanto all’altro, osservano la stessa foglia, uno mentre sta cadendo, l’altro mentre è già a terra, e poi si guardano timidamente.
A volte uno, a volte l’altro si avvicina da un annusatina. Quasi sempre l’altro si richiude timido, forse spaventato chissà, si arrotola su se stesso e mostra gli aculei. Qualche volta quando proprio le cose non vanno bene punge pure il malcapitato come gli avesse fatto chissà cosa e quest’ultimo scappa.
Il riccio pungitore però poi ci pensa, ci pensa, ci pensa e gli spiace, poi… poi torna a rotolar sulle foglie, o a guardare sui rami i piccoli animali.
E così continua la vita, come niente fosse, o forse qualcosa si, ma continua, così, ognuno nelle proprie faccende affaccendato.
Poi, poi pian piano una foglia che cade più in là, un colore più bello di qua… ancora i due ricci si trovano uno in fronte all’altro, di sorpresa, ancora, come un filo li legasse in qualche modo, come un sentiero disegnato, sognato, immaginato li portasse in ogni caso lì, come non potessero non ritrovarsi ogni tanto accanto.
Si ritrovano uno in fronte all’altro e si osservano un istante, uno azzarda un timido sorriso, l’altro risponde, uno si avvicina un po’, gira intorno all’altro, l’altro si lascia osservare, si lascia guardare, si fermano di nuovo uno in fronte all’altro, poi uno si fa coraggio e col nasino spinge dolcemente il muso dell’altro e… e questo d’improvviso si chiude, mostra le spine, ed una spina si pianta sul musetto ancora sorridente del primo riccio il quale fugge via pensando non tornerò mai più qui.
Non è sempre lo stesso a pungere, non è lo stesso ad essere punto. A volte uno a volte l’altro. Comunque sia il pungitore timido resta ancora lì per un po’ chiuso, poi pian piano si schiude, lentamente. Si guarda attorno e si scopre nuovamente l’unico riccio presente. Si guarda un po’ intorno quasi sperando di non esser solo, passeggia un po’ e se ne torna alle sue cose pensando chissà perché, chissà che cosa, pensando e se fosse stato… pensando.
E ancora tante foglie sono sparse sul prato, e ancora tante foglie cadono dagli alberi che le stanno perdendo, poi pian piano viene il freddo, scende la neve, rotolar sulla neve non è come sulle foglie, la neve si sfalda, si rompe, e fa freddo e copre i colori, e gli scoiattoli sono tutti a dormire e anche i ricci cominciano ad essere stanchi e scende il sonno, un sonno lungo mesi, ma un sonno talvolta interrotto da sogni, pensieri chissà perché, chissà che cosa, e se fosse stato.
Poi pian piano il tepore riscalda i cuori, riscalda il cielo, riscalda il mondo, “che il sole alzandosi possa sfiorare il tuo viso con il primo raggio, se lo merita dopo tutte queste ere che ogni mattina si occupa di dar vita al mondo” è il primo pensiero a volar nell’aria, poi il tempo comincia a scorrere, le foglie sono verdi, belle si, ma non come quelle d’autunno e non cadono così spesso e i frutti degli aceri non sono maturi ma il tempo ancora passa ed ogni riccio vive il proprio spazio, il proprio giardino, il proprio momento, le cose cambiano nel tempo.
Poi pian piano torna l’autunno, le foglie gialle, le foglie rosse, tornano colori dei sogni ed una foglia rossa color del sangue, rossa color del cuore scende dal cielo, e vede un riccio affannarsi per prenderla, così si sposta, e il riccio la segue ancora, si sposta verso il centro del giardino, ed il riccio la segue ancora, si sposta e vede un altro riccio indifferente che guarda invece in basso, tocca così il naso del primo e poi scende giusto accanto agli occhi del secondo.
E si ferma lì.
Un riccio alza lo sguardo, l’altro lo abbassa e lì s’incrociano un istante solo in cui uno come per farsi avanti si ferma un istante tentennando e l’altro già si chiude un istante, poi apre un solo occhio come per vedere cosa l’altro ha fatto, poi apre entrambi gli occhi, si guardano ancora un istante.
E poi.
Foto.
di Stefano Giolo 21 Gennaio 2009
Vorrei fare una foto, forse la foto di un ricordo, chissà, vorrei essere in grado di fare una foto, vorrei poter fare una foto.
Seduta in auto nella penombra, unica luce un lampione lontano, o forse i fari di un’auto di passaggio.
I capelli sono lunghi qualche ciuffo attraversa stancamente il viso, sono un po’ mossi, non molto. Nella semi luce si vede che sono chiari ma non ne è ben chiaro il colore, l’immagine è color seppia, quasi bianco e nero a causa dell’assenza di luce.
Nel bordo del vetro del finestrino aperto per metà la luce del lampione o di chissà di cosa si filtra e un po’ come in un prisma si allarga in un raggio, una linea che le taglia il volto, dalla fronte ampia e liscia, passa all’attaccatura del naso, accanto ad un occhio, ha gli occhi chiari lei, non se ne distingue il colore ma sono certo chiari, poi la luce scende sulla guancia e in quel mentre valorizza debolmente lentiggini che si percepiscono sulla parte alta del naso stesso ed un piccolo particolare, un neo proprio sul lato, accanto alla narice sinistra. La luce è sull’altro lato ma in qualche modo è proprio la sua presenza-assenza a valorizzarne l’insieme.
Prosegue ancora questo bagliore verso la sua guancia sfiorando l’attaccatura delle labbra dove il sorriso forma tra la guancia le labbra e il mento delle piccole fossette valorizzate dal chiaroscuro della scena, la luce non passa poi sul collo ma la curvatura del vetro o il dislivello tra il viso e il corpo la fanno sparire in qualche altro luogo come se il suo scopo fosse in quel punto terminato.
Il sorriso è dolce, ampio, talmente ampio da lasciar intravedere un istante il bianco dei denti, stupendo non tanto per la forma in se delle labbra quanto per il portamento, per il modo di sorridere, per l’istante in cui quelle labbra decidono di sorridere e le tempistiche dei movimenti abbinate a quelle dello sguardo. Non è facile fotografare l’istante esatto in cui tutto questo si può cogliere nonostante l’immobilità tipica di un’immagine statica.
Il naso, tra questi occhi chiari e le labbra e le fossette e il mento, è leggermente tondo ma proporzionato nel volto, le sopracciglia curate e un lievissimo trucco valorizza la forma stessa degli occhi. Ma non è la forma, ne il colore degli occhi a formarne lo sguardo, ne il sorriso a darne la bellezza: è come pregna di una retro-bellezza che le sta profondamente dentro, che va al di là dell’estetica e della forza stessa che trasmette, e della poesia. Una retro-bellezza che è propria del movimento, dell’istante, della scelta inconsapevole di come quando perché dove muoversi.
Lo sguardo è rivolto verso di noi ma il viso è leggermente inclinato verso la sua destra, come consapevole che in quella posizione il gioco di luci e ombre le darà maggior risalto.
Osservando ancora le labbra, le fossette attorno ad esse, il bianco che spunta dei denti, si nota un altro piccolo neo tra il naso e il labbro superiore, un neo chiaro, quasi impercettibile al buio ma presente, come per dire “guardami ancora” ed ancora lo sguardo viene portato ad osservare l’insieme, proporzionato, nelle forme e nei chiaroscuri e così ricco di essenza, la pelle appare liscia, pura come il volto di chi si sente a casa, curato come quello di chi si ama e al contempo libero da ogni costrizione o regola.
Man mano che gli occhi si abituano alla luce spunta un altro impercettibile neo, prima era esattamente nascosto da essa. Si trova sul mento, diametralmente opposto all’altro, giusto accanto ad una fossetta di quelle formate dal sorriso. Ed è proprio osservando quest’ultimo che la penombra mostra il lobo dell’orecchio, un orecchio perfetto, ben formato, quasi elfico seppure senza la tipica punta, Porta alcuni orecchini, anelli, uno più grande e gli altri due leggermente più piccoli, non sulla parte bassa del lobo però ma leggermente più in su.
La luce si riflette leggermente tra il volto e l’orecchino centrale formando un piccolo punto luce che prima non si notava.
Il punto luce riporta di nuovo a quel raggio e dal raggio allo sguardo leggermente felino, ma di un felino dolce, mansueto, per nulla aggressivo. La parte dell’occhio più vicina al naso si allarga leggermente invece di stringersi subito ed è rivolta leggermente verso il basso, valorizzata dalla cornice delle sopracciglia quasi disegnate con precisione per questo scopo. Ancora una lo sguardo tende a scendere scorrendo il naso, le lentiggini lievi impercettibili dolcemente stupende e poi di nuovo il sorriso, a navigare su quel sorriso, sulla bellezza e la retro-bellezza e l’essenza per poi riprendere ancora a scoprire nuovi dettagli, luci ombre, sogni nascosti, e ancora ancora.
Ancora.
Salite….
di Stefano Giolo 15 Gennaio 2009
Ho sognato sta notte.
Una salita, di roccia, e terra, ripida e pioggia.
Mi arrampicavo su di un percorso erto, ripido scivoloso, mi arrampicavo sempre con più fatica, dovevo arrivare lassù, qualunque cosa fosse, dovevo arrivarci, e scivolavo, ero ormai pieno di fango, le mani ferite, stanco, il percorso sempre più Erto, ormai pareva di arrampicarsi in parete, tra sassi, terra chiara, sabbia, stanchezza, scivolavo. Poi infine mi arrendevo, non era più possibile proseguire, era davvero impossibile a chiunque proseguire e ho cominciato a scendere, arrivato quasi alla fine ormai era tutto allagato, per tornare alla strada dovevo tuffarmi in una specie di stagno, mi tuffavo, mi tuffavo ma curiosamente non ero bagnato, arrivavo al di là dell’acqua e in quel momento arrivava un mio amico, mi passava accanto e saliva da dove ero sceso, saliva una scalinata breve, una normalissima scalinata come quelle che si trovano nelle case. Portava al piano di sopra, portava ad una mansarda, chiudeva la porta e tornava giù da me.
Storia di un giorno freddo e di stufe a legna e di incontri
di Stefano Giolo 14 Gennaio 2009
I personaggi son due in questa storia, il cambusiere e il Ragazzino, o forse il Capo e il Ragazzino.
Non sono due personaggi a caso, non sono due persone e basta ma sono speciali a loro modo come ognuna delle persone presenti con loro, e non sono due singole persone, ne una coppia di persone ma due di un gruppo, sono semplicemente parte di un gruppo, di un mondo, di una grande famiglia. Non si conoscono ne mai forse si frequenteranno.
C’è freddo fuori e neve, neve ovunque, la casa è riscaldata solo da qualche stufa a legna e dei termosifoni malandati, in casa si gira con la sciarpa, chi per voglia chi per costrizione, chi per moda. I ragazzini sono molti e scatenati, i loro responsabili sono quattro capi e due cambusieri entrambi scout, come tutto il gruppo d’altronde. Per questo sono tutti qui, è un campo invernale, un campo di lupetti.
L’entusiasmo è altissimo e le attività, i giochi, i momenti di manualità, di preghiera sono moltissimi, ogni momento ha il suo ruolo, ogni istante ha un suo perché, anche le pause libere. I ragazzini corrono, urlano, giocano, ascoltano, fanno silenzio, crescono e tra essi il Ragazzino si guarda intorno con aria vigile, non è uguale a tutti, lui ha qualcosa di speciale, come tutti qui d’altronde, ma la sua particolarità è quella di essere grande, o di sentirsi grande quantomeno, fisicamente e mentalmente, di sentirsi di dover essere leader, di dover essere qualcosa.
Come ogni ragazzino grande per dimostrare agli altri il suo essere organizza gli scherzi, si mostra forte di fronte ai capi che comincia a vedere come autorità, mostra che lui non piange, che lui vince, mostra che lui sa, e nel frattempo si guarda attorno, come una spugna beve ogni istante, ogni parola ogni reazione, ogni momento.
In cambusa c’è del frastuono, pentole che sbattono, acqua che scorre, profumo di pancetta, dentro ci sono la cambusiera e il Cambusiere, lui è un capo di qualche altro posto, un amico di Akela pare, insomma ha il fazzolettone diverso dagli altri però anche lui sa come si risponde ai gesti e alle frasi di Akela, insomma con le sue particolarità è uguale a tutti, con la sua voglia di giocare con i ragazzi, la sua allegria, il suo saper essere serio, e il prendere i ragazzi sulle spalle, farli volare giocare, e il suo farsi da parte appena iniziano attività.
Sono molti i momenti di questo campo che ricordo, le attività manuali, con quella pasta di sale e con le palline da decorazione, la camminata sulla neve e il grande gioco svolto, e il vetro della stufa che qualcuno ha… che si è rotto da solo, e la boccetta di profumo che il Ragazzino portava con se per sentirsi grande spaccata sul pavimento, e lo scalpo sul ghiaccio, e il Cambusiere che cucinava la carbonara sulla stufa a legna, e Akela vestita da Manfred, e Baghera che ripeteva “ghiande ghiande ghiande. Ghiande ghiande ghiande” vestito da Scrat, e tutti i lupetti a ripetere “ghiande ghiande ghiande. Ghiande ghiande ghiande”, ma c’è un momento, anzi due che forse più di ogni altro ha contato.
Era poco prima di messa, il Cambusiere sistemava l’uniforme dopo aver finito di grattare la teglia delle patate, e il Ragazzino faceva un po’ lo sbruffone e un po’ l’annoiato per la terribile incombenza dell’incontro con il Signore dicendo cose tipo che a lui non interessava.
In quel momento il Ragazzino passava davanti alla porta della cambusa, davanti al Cambusiere e con aria stupita e un po’ di sfida guardò il Cambusiere e disse “Ma come?! Tu sei Cattolico?!”, passò un istante di silenzio poi il Cambusiere guardò il Ragazzino con aria seria ma bonaria, il Ragazzino era ancora lì in attesa di una risposta “Io sono un Capo scout” rispose.
Niente altro.
Il Ragazzino ebbe un istante di blocco, poi guardò con occhi stupiti e disse “si… è vero…”, poi con l’aria un po’ dispersa e pensante si avviò alla cappelletta.
Un altro istante importante fu alla fine del campetto che di nascosto il Ragazzino che sfidava gli adulti, il ragazzino che voleva mostrarsi forte andò dal Cambusiere, di nascosto, certo, mica poteva farlo davanti a tutti…. e lo abbracciò dicendo “Grazie, ci rivedremo vero? Verrai al campo estivo vero? Ti tieni in contatto con Akela” stava un po’ tremando, gli veniva da piangere, ma non poteva farlo vedere, lui era forte.
E fu così che capii che la mia vocazione era quella di essere Capo, che avrei camminato per essere un buon capo, il miglior capo che mi fosse possibile essere.
E fu così che decisi il mio futuro.
Il tempo…. il tempo.
di Stefano Giolo 8 Novembre 2008
Lavoro, sala prove, altra sala prove, da una parte all’altra della provincia, correvo senza pausa senza tempo con l’animo infervorato dei sogni che rincorro che vivo che creo tra le mani correvo veloce e d’un tratto quasi sulla rampa per entrare in tangenziale vidi un uomo
distinto
anziano ormai
d’istinto mi si fermò il cuore
lentamente
lentamente spingeva una bici.
La sua vecchia bici nera
d’una fattura che non poteva che essere di cinquant’anni fa.
Attorno campi,
campagna
e una strada veloce,
una strada che furtivamente si è inserita in quell’ambiente ancora così agricolo,
naturale.
E penso a come per me cambino i tempi, a come sia veloce ogni cosa, ogni comunicazione ogni rapporto, ogni inizio, ogni fine, veloce, veloce, ininterrotto, interrotto ma in fretta per riprendere qualcosa successivo, di corsa, e cambiare gli abiti, le auto, e cambiare i telefoni, e cambia la tecnologia e la comunicazione e cambia ancora il mondo, si trasforma, l’economia e…
e quell’uomo,
lentamente,
spinge una bicicletta ormai vecchia,
ormai antica.
Come un’immagine che si sgretola nel tempo,
come superata
bucata come da un aereo che buca il muro del suono bucata dalla mia presenza dalla mia fretta dai miei sogni che rincorro i miei obiettivi dal lavoro la musica il mio lottare per ciò che credo il non lasciare le cose il mondo mi porti via da me stesso il non lasciare che
quell’uomo mi entri dentro,
lentamente,
con la sua bicicletta antica,
ormai ricordo
di un tempo andato
ormai ricordo
di quel che era
il mondo
ormai…
e mi fermo
scendo dall’auto nel buio
mi fermo
mi sdraio sull’erba e rido
rido di me
rido
e quell’uomo mi guarda
si avvicina
fa una breve, secca risata
secca e bonaria
mi porge la sua bicicletta
“non mi serve più ragazzo,
ora è tua”
e se ne va.
Complicità
di Stefano Giolo 2 Settembre 2008
Complicità…
ho da poco acquistato il nuovo CD Live dei Bluvertigo , preludio al loro ritorno sulle scene spero con un album all’altezza di precedenti.
Beh credo che il loro brano a cui sono più legato sia complicità.
Ricordo ancora quando Lei ed io ci allontanammo, un giorno freddo di anni fa, in luogo che era così Nostro, così intimo, così privato e che oramai non è più tale, sporco dall’inciviltà di studenti e pazienti e barboni.
Addio.
Addio per sempre nel gelido freddo, gelido il tempo, gelido io, gelida lei che passeggiava raccogliendo un fiore, guardandosi intorno, parlando lentamente mentre ascoltavo. Il mio finale “Addio”.
Allontanarsi, salire in macchina ed andare. Andare dove, poi?
Andare perché?
Andare.
Lontano, non importa.
E poi un richiamo, come un sussurro nel vento.
Dove sei? Dove sei?
E scendere dalla macchina quando ormai ero lontano da quel luogo, e camminare verso qualcosa che credevo di sapere, o speravo o mi illudevo o… era lì.
E un bacio lento, lieve, lungo.
Il primo. Il primo di tanti.
E salire ancora su quell’auto, e lo stereo che canta “Complicità” dei Bluvertigo.
“Ma… sei diventato romantico? Ascolti anche questa musica?”
“No, lo sono sempre stato, vedrai”
E così iniziò un qualcosa di indefinitamente lungo che ancora vive e trascina seppur non più nell’amore, che vive e cammina vicino, distante.
Cammina.
Ci ha dato tanto, ci da tanto, che che ne dica il mondo.
Ostacoli.
di Stefano Giolo 25 Agosto 2008
A volte guardo le mie gambe e penso a come sono cambiate.
Un tempo l’80% della mia vita era basata su loro, tre o quattro allenamenti settimanali, correre, correre, spaccare l’ostacolo.
Son passati tanti anni ormai e le vedo rinsecchite e magre per quanto restino invece più muscolose della media.
Ma non sono più le mie gambe. Queste qui mi portano in giro, si certo, dove voglio, mi portano dove voglio, si e senza problemi, ma non mi fanno più essere quel che ero, non mi portano più a sfiorare gli ostacoli, a correre su quei cento e rotti metri, a fare ciò che ancora desidero come un tempo.
Le caviglie, le caviglie non reggono più lo sforzo.
E allora?
Ed allora il mondo deve cambiare, non ci sono più quelle gambe, ma ci sono le dita. Ora suono.
Ci sono le dita a correre veloci tra le chiavi del mio strumento e salgono e scendono, e vanno, e creano emozioni.
Si, non è come essere all’estremo delle proprie capacità, alla velocità massima che il tuo corpo sappia raggiungere, guardare il tuo avversario accanto e sfondare ogni barriera ed ogni limite accelerando ancora, no. Ma talvolta quando il pubblico applaude allora posso ancora superare i limiti dei miei polmoni, i limiti della resistenza del mio corpo fino a sentire il dolore nel petto e non poterne più e continuare ancora e ancora.
Si, e se perderò le dita avrò la voce, e se perderò la voce potrò ancora scrivere e….
e ancora ancora ancora.
La vita va avanti, va avanti comunque sia ed i limiti servono solo ad essere superati, sfondati.
Non saltare l’ostacolo, spaccalo, entraci dentro e sfondalo e quando lo avrai fatto affronta il successivo, ma mai pensando all’ostacolo, mai pensando alla pista, mai pensando al passo, solo guardando dritto in fronte a te il traguardo.
p.s. Non so perché mi va di far una dedica, ma la faccio. A Micaela, a Carlo, a Vittorio.
Le andate a capo.
di Stefano Giolo 1 Luglio 2007
Non ritengo di essere un ottimo scrittore (come qualcuno ritiene io mi ritenga), tuttavia credo di avere un modo di scrivere particolare.
Per cosa in particolare?
Ad esempio le andate a capo.
Le uso, molto, per magari sottolineare una frase, per dare una pausa un po’ più lunga, volte uso andare a capo doppie.
Tanto per essere chiaro.
Insomma le uso cercando di dare un senso.
A volte mescolo anche tratti di poesia, dove le andate a capo sono fondamentali e tratti di prosa dove le andate a capo sono meno importanti.
Questo per dire cosa?
Oggi ho comprato Verona Time, una rivista culturale/artistica veronese che si trova in tutte le edicole di verona. Su questo numero, quello di luglio c’è un mio racconto, è un racconto la cui storia, è quel che è, lo potete leggere benissimo, ma la cui forma non è quella che è. Nella versione che ho spedito loro la parte più interessante a mio avviso erano le andate a capo. Il racconto era una commistione tra poesia e prosa, uno stile trasversale che negli ultimi mesi/anni mi piace particolarmente utilizzare.
Bene.
Hanno tolto tutte le andare a capo
.
Tutte. Comprese quelle di una poesia vera che vi è inserita, ma almeno in quella hanno messo delle barre. Come scrivessi “Silvia, rimembri ancora/quel tempo della tua vita mortale,/quando beltà splendea/negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,/e tu, lieta e pensosa, il limitare/di gioventù salivi?” che è terribile ma almeno un po’ rende l’idea…
Tuttavia non hanno capito che anche il resto andava con le andate a capo.
Eppure era così palese…
Cioè se io le metto, e le sfrutto così tanto da isolare frasi e concetti forse un motivo c’è?!
Ok magari è che per problemi puramente tipografici il racconto non ci stava?
Avrei preferito me lo chiedessero, dicessero le cose, se ne discutesse.
Avrei spedito un racconto diverso, costruito diversamente.
Preferisco sempre la gente che discute.
Invece no, la gente sta zitta, si fa la propria idea e va avanti per la sua strada sicura della propria visione.
Notizia 1
di Stefano Giolo 22 Giugno 2007
Su VeronaTime di luglio potete trovare un mio racconto!
Da luglio in edicola!
…sì.
di Stefano Giolo 22 Giugno 2007
“Scrivo. Di nuovo. Non c’è un motivo preciso, forse un po’ la stanchezza e un po’ la solitudine cronica, il vedere la mia vita proiettata verso un futuro di successo esteriore e insuccesso interiore, di continue novità, cose positive nel lavoro e in altri ambiti che alla fine sono funzionali al vivere ma non all’essere, cosa che invece mi manca.“
Inizia così questo periodo lunghissimo, inizia così il mio … prossimo? Ormai il mio ultimo libro, inizia così, ma…. ma forse è già vecchio.
Il mondo gira, ruota, e il lavoro improvvisamente ha uno stop, o no, non uno stop, è come se al 38esimo chilometro di una maratona ti dicessero “beh dai… dovete continuare a correre qualche chilometro in più… facciamo altri 30, però se riusciamo vi fermiamo prima, si comunque al limite se superate gli altri 30 al limite ne fate un altro po’ dai, comunque vi facciamo sapere”.
Si ma il mondo ruota.
Ho conosciuto persone… interessanti, rivisto volti che non vedevo da tempo scambiato parole che mi mostrano come esista un mondo al di sotto dell’apparenza di questa città.
Ho suonato.
Ieri mattina ho tirato fuori dopo un po’ il mio tenore. Tutto addormentato ha aperto gli occhietti dicendo “ah… ma… io veramente sono qui tutto freddino, insomma dovresti suonarmi un po’ di più”.
Dovete sapere che i sassofoni vanno suonati spesso, vanno “aperti” un po’ come una macchina, se la usi e la tieni in uso vanno, se no bisogna ri-rodarli. Bene, ieri mattina ho suonato come non suonavo da un po’, e ho capito che ieri sera dovevo fare qualcosa.
Jam Session. Non vi partecipavo seriamente da qualche mese, con i musicisti che stimo, pochi elementi, una batteria e una chitarra, e via.
Magico.
Non so neppure dire se il pubblico, le poche persone presenti, si siano divertite. Mi sono goduto io. Follemente.
Il debutto del mio tenore, del mio nuovo bimbo. E il pubblico non c’era, non esisteva.
Un po’ perché dovevo vedere il chitarrista per “concordare” i cambi totalmente improvvisati, un po’ perché non mi andava, perché quello era lo spazio mio, di Giuliano, di Sergio, per qualche momenti di Marcella.
Magia. Pezzi buoni e pezzi non buoni, che importa? Jam. Jazz. Blues. Funk. Sperimentazioni musicali.
Sogni.
Ma una musa c’era, lo ammetto, non lo ammetto a lei.
Dio come mi piace il mio nuovo strumento, come comincio a sentirmi parte con lui, come comincio a padroneggiarlo e a lasciamici possedere al contempo.
Musica.
E poi dopo la musica una passeggiata in una città vuota, di notte, pensieri donati, scambi, silenzi senza imbarazzo, l’anima mi sorrideva.
Qualcosa ieri sera è cambiato, si.
La mia voglia, speranza, i miei sogni, sono cambiati, sono cambiate prospettive.
“Scrivo. Di nuovo. Non c’è un motivo preciso, forse un po’ la voglia di affrontare nuove vie e un po’ la solitudine meno vera, il vedere la mia vita proiettata verso sogni rinnovati, continue novità, sogni funzionali all’essere, emozioni. Vita.“
A presto novità.
L’Ombra di Edgar
di Stefano Giolo 13 Aprile 2007
Ognuno di noi accaniti lettori ha qualche autore a cui è particolarmente legato, fin da piccolo quando al compleanno un’amica mi ha regalato “Il Corvo ed altre poesie” di Edgar Poe io sono stato affascinato da questo grandissimo poeta. Edgar Poe. Allan è un secondo nome aggiunto per ricordarne il legame al patrigno che non lo trattò mai eccessivamente bene e che tentò di frenarlo nei suoi interessi artistici.
Poe è stato conosciuto principalmente e commercialmente per i suoi racconti horror, racconti che hanno insita una forma di malattia, di oscurità, un genio del thriller psicologico a dire il vero, più che dell’Horror, perché ha ben poco a che fare con ciò che chiamiamo Horror oggi, non vi sono mostri, sangue, violenza, ma solo atmosfere, immaginazione, psicologia.
Ma non è questo che mi fa amare Eddie ma la poesia. I racconti per cui era famoso erano il modo che aveva per sostentarsi economicamente, la poesia era il suo mondo, dove raccontava se stesso, il suo vero essere.
Le sue poesie a suo tempo sono state molto di spunto al mio scrivere, sono state ispirazione, sono state forse una delle maggiori spinte affinché io iniziassi a sperimentare, a capire che cosa era a attirare la mia attenzione, quali forme retoriche, quali tematiche.
Alle superiori ebbi uno dei tanti scontri con la mia insegnante di italiano del triennio superiore quando sostenni in un’interrogazione che Poe, e non Baudelaire fu il primo vero poeta decadente, anche perché Baudelaire tradusse molte poesie di Poe in gioventù, e probabilmente ne imparò a sua volta le tematiche e gli stili. Ovviamente fui cazziato, ma ricercando e ricercando infine scoprii di non essere l’unico a pensarla così, ma si sa… gli innovatori letterari devono essere Europei, non possono essere gli Americani a insegnarci qualcosa, almeno in questo campo…
Si è detto molto di Poe e in verità si conosce poco. Si è detto che fosse un alcolizzato, che fosse stato ritrovato in delirium tremens solo davanti ad un bar, e fosse morto successivamente all’ospedale, si è detto che fosse un libertino.
Ora provate a cercare una biografia, leggete. Troverete pareri discordanti, troverete addirittura biografie che non fanno più neppure riferimento all’alcool, per lo più troverete “morto in circostanze misteriose”.
Matthew Pearl con “L’Ombra di Edgar” cerca di far luce su quelle vicende. Dopo anni di studi e di ricerche, dà una sua visione, probabilmente la più vicina alla realtà, sulla vita di Edgar e sulla sua morte.
La storia viene romanzata come se a fare le indagini fosse un uomo vissuto allo stesso tempo di Poe. Questa è la trama: “Baltimora, 3 ottobre 1849: Edgar Allan Poe – scrittore di genio e inventore del prototipo di tutti gli investigatori, C. Auguste Dupin – viene trovato in stato confusionale e con indosso vestiti non suoi. All’ospedale, prima di morire, pronuncia frasi incoerenti e grida più volte “Reynolds!”. Quentin Hobson Clark, ricco ammiratore dello scrittore, vuole scoprire la verità sulla sua morte. Si mette così sulle tracce di Auguste Dupont, l’investigatore francese presunto ispiratore del personaggio di Dupin. Ma quando lo rintraccia, a Parigi, scopre che Dupont è ormai l’ombra del brillante detective che è stato. Dopo averlo aiutato a ritrovare se stesso proprio attraverso le storie di Dupin, Clark lo convince a indagare sulla morte di Poe. E mentre spunta una altro candidato al ruolo di “vero” Dupin, Dupont e Clark si ritrovano trascinati in un terribile vortice di ricatti, omicidi e letteratura che li condurrà da Parigi a Baltimora in un crescendo di misteri e di scoperte.“*
Alla fine del libro, dopo aver scoperto un Poe, meno lascivo, forse meno poetico/decadente ma sicuramente più umano, più reale, più vicino a noi (e tra l’altro probabilmente astemio) l’autore spiega anche le sue indagini reali e quanto del romanzo è effettivamente frutto delle sue (e di altri) ricerche e quanto è stato inventato per dare un filo alla trama.
Ho trovato questo libro davvero avvincente, indipendentemente dal mio amore verso lo scrittore americano e consiglio davvero di leggerlo.
Notare il corvo sulla spalla.
*Dalla recensione di Feltrinelli